Cenni storici
Con la celebrazione del Giubileo della Misericordia Papa Francesco, fra le altre cose, ha richiamato l’attenzione sull’importanza della pratica delle opere di misericordia corporali e spirituali. Con tale richiamo il Papa ha ribadito alla comunità cristiana ciò che è stata, fin dagli inizi, la preoccupazione della Chiesa: rendere concrete le esigenze del Comandamento dell’Amore (cfr. Mt. 22,37- 40).
É vero che nella Sacra Scrittura emerge come impegno prioritario il soccorso del povero, dell’indigente, della vedova, dell’orfano, tuttavia ben presto nella riflessione della Chiesa, alla luce anche dell’insegnamento di Cristo, si è fatta sempre più chiara l’idea che il prossimo va sostenuto e aiutato non solo nelle sue necessità materiali, ma anche nei suoi bisogni spirituali. Vogliamo chiederci le ragioni per le quali Gesù, i santi, la Chiesa invitano a compiere le opere di misericordia.
Innanzitutto, le opere di misericordia si compiono per ottenere la remissione dei peccati. Possiamo fare riferimento, a questo proposito, agli episodi evangelici di Zaccheo o alla chiamata di Levi: in entrambi i casi i “neo-convertiti”, che avevano molto rubato, riparano il maltolto con l’abbondanza della elemosina. L’opera di misericordia acquista, in questi casi, un carattere penitenziale che si situa nel percorso di conversione e nell’ottica del raggiungimento della salvezza.
Il secondo motivo è dato dal fatto che esiste uno stretto legame tra preghiera e opera di misericordia. La vita del discepolo di Gesù non è fatta solo di preghiera (Non chi dice Signore, Signore entrerà nel Regno dei cieli…), ma di contemplazione e azione. Questo rapporto viene particolarmente sottolineato durante la Celebrazione eucaristica con la raccolta delle off erte durante l’offertorio. Il gesto costituisce un chiaro che la preghiera deve essere accompagnata dalle opere.
Il terzo motivo lega le opere di misericordia alla vita eterna. Dice Gesù “procuratevi degli amici con l’iniqua ricchezza” (Lc 16.9). I poveri e gli indigenti, i malati e i diseredati, sono i nostri “avvocati”, i nostri difensori presso Dio.
Il quarto motivo scaturisce da quello precedente ed è ben presente nella predicazione di Cristo stesso. Ogni opera compiuta nei confronti del prossimo è come se fosse fatta a Cristo stesso. Per tal ragione la ricompensa sarà grande. Gesù stesso dice: “È a me che lo avete fatto” (Mt. 25, 40) (San Martino de Tours, San Francesco d’Assisi, Madre Teresa di Calcutta).
Il quinto motivo è strettamente legato alla dimensione della fraternità umana. Il genere umano ha una comune origine e, pertanto, la misericordia è dovuta a tutti, senza distinzioni. A motivo della loro fede in Dio Creatore i cristiani estendono a tutti gli uomini il dovere di effettuare opere di misericordia, proprio per il fatto stesso che sono uomini.
Infine, il sesto motivo lega la misericordia alla perfezione, alla santità. Nel Vangelo troviamo questa richiesta di Cristo: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro” (Lc. 6,36). Le opere di misericordia sono una applicazione concreta della carità, la quale ci rende “somiglianti” a Dio. Praticandole noi portiamo veri e propri frutti di santità e in quanto tali devono riempire il pellegrinaggio del credente verso Dio. Dal Medioevo fi no ad oggi le opere di misericordia corporale e spirituale non sono rimaste solo azioni del singolo cristiano, ma si sono trasformate in vere e proprie attività sociali e culturali della comunità cristiana. Si sono costruiti ospizi, ospedali, monasteri, tutte opere che avevano come principale obiettivo l’assistenza delle categorie sociali più deboli.
Nacquero le Confraternite. Si tratta di enti sorti per iniziative di fedeli laici che avevano la missione di accompagnare la vita dei loro aderenti dalla nascita fi no alla morte. Inoltre, con il sorgere di nuove necessità, come, ad esempio, alloggiare e sostenere i pellegrini nei loro viaggi religiosi, o liberare i cristiani resi schiavi dai musulmani, nascono nuove strutture e nuove congregazioni, il cui modus operandi diviene un modo di esprimere l’amore verso Dio e verso il prossimo, dinnanzi a una necessità apparsa nella storia. L’importanza delle opere di misericordia è stata ribadita da Pontefici e dal Magistero della Chiesa fi no ai nostri giorni. Vorrei ricordare il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Le opere di misericordia sono azioni caritatevoli con le quali soccorriamo il nostro prossimo nelle sue necessità corporali e spirituali. Istruire, consigliare, consolare, confortare sono opere di misericordia spirituale, come pure perdonare e sopportare con pazienza. Le opere di misericordia corporale consistono segnatamente nel dare da mangiare a chi ha fame, nell’ospitare i senza tetto, nel vestire chi ha bisogno di indumenti, nel visitare gli ammalati e i prigionieri, nel seppellire i morti. Tra queste opere, fare l’elemosina ai poveri è una delle principali testimonianze della carità fraterna: è pure una pratica di giustizia che piace a Dio” (n. 2447). Papa Francesco, nella lettera apostolica Misericordia et misera, con cui ha concluso il Giubileo della Misericordia, ha richiamato il doppio livello, personale e sociale, con cui si manifesta la misericordia: “… Sono passati più di duemila anni, eppure le opere di misericordia continuano a rendere visibile la bontà di Dio. Ancora oggi intere popolazioni soffrono la fame e la sete, e quanta preoccupazione suscitano le immagini di bambini che nulla hanno per cibarsi. Masse di persone continuano a migrare da un Paese all’altro in cerca di cibo, lavoro, casa e pace. La malattia, nelle sue varie forme, è un motivo permanente di sof erenza che richiede aiuto, consolazione e sostegno. Le carceri sono luoghi in cui spesso, alla pena restrittiva, si aggiungono disagi a volte gravi, dovuti a condizioni di vita disumane. L’analfabetismo è ancora molto diff uso e impedisce ai bambini e alle bambine di formarsi e li espone a nuove forme di schiavitù. La cultura dell’individualismo esasperato, soprattutto in occidente, porta a smarrire il senso di solidarietà e di responsabilità verso gli altri. Insomma, le opere di misericordia corporale e spirituale costituiscono fino ai nostri giorni la verifca della grande e positiva incidenza della misericordia come valore sociale. Essa infatti spinge a rimboccarsi le maniche per restituire dignità a milioni di persone che sono nostri fratelli e sorelle, chiamati con noi a costruire una ‘città affidabile’”
(Francesco, Lettera apostolica «Misericordia et misera», del 20-11-2016).
Opere di misericordia spirituale. Le più difficili da praticare
1. Consigliare i dubbiosi L’essere umano, come già Aristotele (384-322 a.C.) aveva riconosciuto, è un animale dotato di ragione. Ciò vuol dire che è capace di porsi domande esistenziali e di senso. Si interroga sul significato della sua esistenza, sul mondo che lo circonda, sul rapporto con i suoi simili e con il creato e sul destino che lo attende oltre la morte. La Rivelazione cristiana, che ha il suo culmine nell’incarnazione di Gesù Cristo, Figlio di Dio, ha portato la luce su tali questioni. Nonostante la luce portata dalla Rivelazione, il dubbio è di per sé una possibilità che ogni uomo attraversa, tuttavia, se viene incanalato riveste un aspetto positivo, diventa uno stimolo per ricercare la verità. Certo l’esercizio di questa opera di misericordia entra in rotta di collisione con la mentalità moderna la quale è ben espressa dal filosofo italiano Noberto Bobbio (1909-2004) che nel 1955 scriveva: “Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze” (Norberto Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, p. 32). A fronte di questa affermazione rimane però un dato di fatto e cioè, l’uomo che vive nel dubbio è un essere tormentato, disorientato, pieno di angosce e di paure, diventa credulone e superstizioso. Non a caso la Parola di Dio afferma: “Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio […] perché chi dubita rassomiglia a un’onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là” (Gc 1,5-6). Consigliare i dubbiosi, allora, è un’opera di misericordia, perché, esercitandola, si ama il prossimo, dal momento che lo si aiuta a compiere un cammino di liberazione dal tormento, dal dubbio e dall’angoscia… – Davanti all’incertezza il cristiano è chiamato ad offrire la certezza di Dio. – Davanti alle negazioni della conoscenza della verità da parte della ragione umana il cristiano deve far tornare questa fiducia nelle potenzialità della ragione stessa. – Davanti alla confusione antropologica deve presentare la bellezza e la ricchezza della differenza fra l’uomo e la donna. – Davanti allo smarrimento del senso del peccato deve richiamare con forza la realtà del male, che va allontanata e combattuta. – Davanti alla chiusura verso le realtà eterne il cristiano deve sempre più far innamorare l’uomo del nostro tempo della vita futura che ci aspetta oltre questa vita.
2. Insegnare agli ignoranti II filosofo greco Socrate (470/469-399 a.C.) faceva coincidere la virtù con il sapere. Quando l’uomo può dirsi virtuoso? La conoscenza del bene, che egli può raggiungere attraverso la propria ragione. Per Socrate conoscere il bene è già una garanzia di vita buona ad ogni livello. La vita dell’uomo, dunque, è una continua ricerca non dell’utile, del piacere, del guadagno ma della verità. Il bisogno di verità, per Socrate, risponde alla natura stessa degli uomini, caratterizzata dal fatto di possedere un’anima, cioè un aspetto immortale. Gesù, prima di salire al cielo dà agli apostoli questo comando: Andate e ammaestrate. Cioè trasmettete quanto io vi ho insegnato a tutte le nazioni (cfr. Mt. 28,18-20). Negli Atti degli apostoli si narra che l’apostolo Filippo sulla strada che scendeva da Gerusalemme a Gaza incontrò un funzionario della regina di Etiopia. Filippo chiede al funzionario: “Capisci quello che stai leggendo?”. Quegli rispose: “E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?”. E invitò Filippo a salire e a sedere accanto a lui. Il passo della Scrittura che stava leggendo era questo: “Come una pecora fu condotto al macello e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre bocca. Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, ma la sua posterità chi potrà mai descriverla? Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita”. E rivoltosi a Filippo l’eunuco disse: “Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?”. Allora Filippo prendendo a parlare e partendo da quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona novella di Gesù. Proseguendo lungo la strada, giunsero a un luogo dove e c’era acqua e l’eunuco disse: “Ecco qui c’è acqua: che cosa mi impedisce di essere battezzato?”. Fece fermare il carro e discesero tutti e due nell’acqua, Filippo e l’Eunuco, ed egli lo battezzò» (At. 8,3-38). Partendo dal comando di Cristo e da questo episodio i cristiani nel corso dei secoli hanno fatto dell’insegnamento un’opera di carità. Le università sono l’invenzione più importante che la cristianità medioevale ha realizzato per istruire gli uomini, per aprire loro il cammino della verità e per preparare la loro anima a una conoscenza superiore, che non può essere frutto solo dell’intelligenza. Sono numerosissimi i santi che hanno vissuto la loro vita nel campo della trasmissione del sapere, tanto che la stessa liturgia prevede dei formulari propri per le memorie e per le feste dei santi dottori della Chiesa ed educatori. Insegnare agli ignoranti non significa semplicemente preoccuparsi delle zone ad alta densità di analfabetismo, ma pensare alle periferie esistenziali delle nostre città, in cui si trovano – come più volte ha testimoniato Papa Francesco – bambini che non sanno neanche fare il segno della croce. Dio stesso rimane oggi uno sconosciuto per molti; ciò rappresenta la più grande povertà e il maggior ostacolo al riconoscimento della dignità inviolabile della vita umana (Misericordia et misera). – Insegnare i fondamenti della fede, – approfondire la dottrina cristiana, – essere all’altezza delle sfide del nostro tempo per essere luce per il nostro prossimo è un’opera di misericordia importante in quanto ha a che fare con la conoscenza della via della salvezza e quindi con la garanzia della felicità eterna per noi stessi e per il nostro prossimo. Dare il pane e l’acqua significa non far morire il nostro prossimo fisicamente, insegnargli la via della salvezza significa non farlo morire spiritualmente e per l’eternità: “Animam salvasti, animam tuam predestinasti”, secondo la massima attribuita a Sant’Agostino.
3. Ammonire i peccatori Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica presenta il peccato come “[…] un’offesa a Dio, nella disobbedienza al suo amore. Esso ferisce la natura dell’uomo e attenta alla solidarietà umana. Cristo nella sua Passione svela pienamente la gravità del peccato e lo vince con la sua misericordia” (n. 392). In altri termini, il peccato è la cosa peggiore che può capitare all’uomo, in quanto lo separa dal suo rapporto vitale con Dio e quindi lo conduce, per sua stessa scelta, alla alienazione da sé, alla morte spirituale e alla condanna eterna. Il Signore è venuto nel mondo e ha effuso il suo sangue proprio per liberare l’umanità dal peccato e riaprire all’uomo la via del cielo. Tuttavia, la debolezza, insita nelle conseguenze del peccato originale, porta l’uomo, nel corso della sua vita terrena, a peccare. La vita si configura come un combattimento spirituale contro l’azione tentatrice del diavolo. Papa Francesco in una delle sue udienze del mercoledì ha sottolineato che “la conseguenza del peccato è uno stato di sof erenza, di cui subisce le conseguenze anche il paese, devastato e reso come un deserto… Dove c’è rifiuto di Dio, della sua paternità, non c’è più vita possibile, l’esistenza perde le sue radici, tutto appare pervertito e annientato. […] La sofferenza, conseguenza inevitabile di una decisione autodistruttiva, deve far rifl ettere il peccatore per aprirlo alla conversione e al perdono” (Francesco, Discorso pronunciato in occasione dell’Udienza generale “Misericordia e correzione”, del 2-3-2016). Ammonire i peccatori, dunque, è un’importante opera di misericordia spirituale che trae il suo fondamento nell’amore per il nostro prossimo e ha lo scopo di aiutare a comprendere il male che lo domina e intraprendere il cammino della liberazione, così come rammenta la Sacra Scrittura: “Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati” (Gc. 5,20). Ammonire i peccatori assume – come le altre opere di misericordia – una dimensione non solo personale, ma anche sociale. Questa opera di misericordia ci spinge a curare la malattia spirituale del singolo e, non di meno, ci esorta a indicare e a curare la malattia del corpo sociale in cui viviamo. La malattia che, soprattutto il mondo occidentale vive, si sintetizza nel rigetto di Dio e della sua legge.
4. Consolare gli afflitti La vita dell’uomo è segnata da molta sofferenza, che tocca sia il corpo che lo spirito. La sofferenza spirituale è fatta di tristezza, di aridità, di tentazioni, di sconforto, di solitudine. Si tratta di stati d’animo, sentimenti, esperienze che allontanano da Dio perché ce lo fanno sentire lontano o peggio ancora assente. Questa “notte oscura dell’anima”, come la chiama San Giovanni della Croce (1542-1591) (Cfr. San Giovanni della Croce Ocd, La notte oscura, trad. it., Sellerio, Palermo 1995), è stata provata da tanti santi che hanno raccontato l’impressionante combattimento intrapreso per mantenersi fedeli al Signore. La sofferenza del corpo è frutto della malattia, della povertà, dell’ingiustizia. Queste situazioni pongono l’uomo davanti alla sua condizione di limite. La sofferenza fi sica lascia nella desolazione non solo il malato, ma anche la sua famiglia e i suoi amici. L’uomo, quindi, è obbligato continuamente a confrontarsi con il grande mistero del male, non facile comprendere, che tuttavia è illuminato da una certezza: Dio non abbandona i suoi fi gli al male della desolazione. Egli stesso si fa Consolatore, mandando suo Figlio che ha provato la necessità della consolazione, soprattutto durante l’agonia nel Getsemani: “Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo” (Le. 22,43). Consolare gli afflitti – quarta opera di misericordia spirituale – significa, allora, accostare le sofferenze del prossimo, incoraggiandolo ad avere fiducia in Dio che non vede e magari non sente, ma che lo attende. La Tradizione cristiana ha assegnato alla Madonna il titolo di “Consolatrice degli afflitti”. La Vergine, che ci è stata donata da Cristo come vera Madre, ha conosciuto le amarezze della sofferenza spirituale. Perciò il suo Cuore continuamente si china sulle nostre sofferenze e non si stanca di indicarci la vera consolazione che ha un nome, che è una persona: Gesù Cristo. In lui, crocifisso, i cristiani vedono e mostrano ai fratelli Dio che assume su di sé tutte le sofferenze.
5. Perdonare le offese Per riflettere sulla quinta opera di misericordia spirituale bisogna capire, innanzitutto, che cosa significa perdonare e quale sia, in qualche modo, una corretta “fenomenologia” del perdono. Tutta la storia della salvezza è una storia di perdono del peccato dell’uomo da parte di Dio, che raggiunge il suo apice nel dono del Suo Figlio per la nostra salvezza. “Dio perdona sempre! Non si stanca di perdonare. Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono. Ma Lui non si stanca di perdonare” (Francesco, Angelus, del 13-3-2013). Riceviamo offesa – letteralmente dal latino obfendere – quando veniamo “colpiti” dall’altro. I modi di essere colpiti sono tanti: quando veniamo fatti oggetto di ingiurie, quando siamo attacchi verbalmente e fisicamente, quando veniamo calunniati, quando dobbiamo confrontarci con atteggiamenti negativi che generano in noi sofferenza e dolore. Questi atteggiamenti, anche se in modo minimale, sono presenti giornalmente nella vita di ogni uomo che ha a che fare con altri uomini. Che cosa fare, allora, davanti all’off esa? Gesù ci chiede di perdonare. Perdonare significa al tempo stesso non condannare, continuare a guardare con benevolenza l’altro, ma senza scusare il male subito. Nella storia della Chiesa ricorre un’antica formula teologica che toma sempre: “condanna del peccato, amore per il peccatore”. Dio non vuole mai la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Un punto, dunque, deve essere chiaro: perdonare non significa minimizzare il male, ma guardare con amore il nostro nemico, per portarlo a ravvedersi. Il perdono, anche in proporzione all’offesa ricevuta, può richiedere un cammino a tappe che comporta innanzitutto – la rielaborazione nella memoria del male ricevuto, – un graduale distacco da esso – e una guarigione della ferita che ha generato. Il perdono, infine, è un atto di libertà e di bontà che fa bene, innanzitutto, a chi perdona in quanto, libera dal potere di chi ha offeso. Annulla, infatti, i sentimenti di rabbia e di vendetta. Ma il perdono fa bene anche a chi viene perdonato perché viene illuminato sul suo errore e così può cambiare vita. Meditare su questa opera di misericordia spirituale per prima cosa significa, allora, esaminarsi sul serio sulle offese che ciascuno di noi, in prima persona, ha arrecato con il proprio peccato a Dio, agli altri e a sé stesso. Solo successivamente, riconoscendomi peccatore e bisognoso di perdono da parte di Dio potrò considerare l’offesa patita e imitare Dio che, nella sua patema bontà, è pronto al perdono dei fi gli che errano: “[…] e perdona a noi i nostri peccati, anche noi, infatti, perdoniamo a ogni nostro debitore” (Lc 11,4). Oggetto della misericordia di Dio, il cristiano diventa capace del perdono. Quante volte lo si deve fare? Risponde Gesù, che dalla croce ha perdonato gli aguzzini, fra i quali ci siamo pure noi: “Non ti dico fi no a sette, ma fi no a settanta volte sette” (Mt. 18,22).
6. Sopportare pazientemente le persone moleste Sopportare significa non risentirsi e non arrabbiarsi davanti ai difetti materiali, caratteriali e anche morali del nostro prossimo, ma al tempo stesso vuol dire fare entrare nelle relazioni umane sempre la carità e la verità. La sopportazione richiede l’esercizio delle virtù della fortezza e della pazienza. Mentre esercitiamo la pazienza nei confronti del prossimo che ci irrita o delle situazioni spiacevoli in cui ci troviamo, pensiamo, però, anche che il Signore usa con noi la Sua infinita pazienza non stancandosi mai di perdonarci ogni volta che ci rendiamo a Lui molesti con i nostri peccati e con i nostri ritardi d’amore. Tutto ciò può essere condensato in una preghiera attribuita a San Thomas More (1478-1535). “Signore dammi la forza di cambiare le cose che posso modificare e la pazienza di accettare quelle che non posso cambiare e la saggezza per distinguere la differenza tra le une e le altre. Dammi Signore, un’anima che abbia occhi per la bellezza e la purezza, che non si lasci impaurire dal peccato e che sappia raddrizzare le situazioni. Dammi un’anima che non conosca noie, fastidi, mormorazioni, sospiri, lamenti. Non permettere che mi preoccupi eccessivamente di quella cosa invadente che chiamo ‘io’. Dammi il dono di saper ridere di una facezia, di saper cavare qualche gioia dalla vita e anche di farne partecipi gli altri. Signore dammi il dono dell’umorismo”.
7. Pregare Dio per i vivi e per i morti La preghiera è la testimonianza della nostra debolezza, della necessità di rivolgerci a Dio perché ci sostenga nella nostra indigenza e allo stesso tempo manifesta la profonda fiducia in Lui, che è capace di mutare situazioni umanamente insuperabili. Riconoscere ciò non significa annichilirci come uomini, anzi, come tanti santi e teologi hanno testimoniato, “l’uomo non è grande se non quando è in ginocchio davanti a Dio” (Card. Robert Sarah, Dio o niente. Conversazione sulla fede con Nicolas Diat, Cantagalli, Siena 2015, p. 41). La storia sacra – fra le sue tante vicende – ci presenta Mosè con le braccia alzate che intercede perché Giosuè, con il popolo d’Israele, possa sconfiggere le truppe di Amalèk presso Refidim: “Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fi no al tramonto del sole. Giosuè sconfi sse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fìl di spada” (Es. 17,11-13). Gesù, alla richiesta che gli rivolgono gli apostoli, c’insegna a pregare donandoci la preghiera del Padre nostro in cui sono inserite ben sette richieste a Dio (cfr. Mt. 6,9-13): secondo San Tommaso d’Aquino questa è la preghiera perfettissima e, quindi deve essere il modello di ogni preghiera personale. L’ultima opera di misericordia spirituale ci invita, dunque, a guardare il nostro prossimo “adottandolo” nella nostra preghiera. Ma che cosa chiedere? La prima cosa da chiedere a Dio, per noi e per gli altri, è che ci mantenga nella fede, ci faccia progredire nel cammino di conversione e successivamente ci liberi dal male morale, spirituale, fisico e temporale che ci assilla o che assilla il nostro prossimo. Questa unione nella preghiera fra i credenti si chiama “comunione dei santi” e in essa rientrano anche le preghiere di suffragio per i defunti. Pure per loro dobbiamo costantemente pregare, per aiutarli – se sono in Purgatorio – ad accedere al più presto alla visione beatifica di Dio; allo stesso tempo essi dal Cielo pregano per noi, soprattutto se già sono in Paradiso, da dove ci ottengono, con la loro intercessione, le grazie divine. Sono necessarie e opportune le preghiere personali, quelle che ognuno di noi rivolge a Dio, ma non si deve però mai dimenticare l’infinito valore della preghiera del culto pubblico della Chiesa, che sono la Messa, la Liturgia delle Ore e le altre forme di liturgia. Nella Messa non siamo noi gli attori della preghiera, ma è Cristo stesso che prega il Padre, e noi ci uniamo a Lui nella rinnovazione del suo sacrificio sulla croce fi no alla fine del mondo. San Pio da Pietrelcina (1887- 1968) amava dire che è più facile per la terra reggersi senza il sole, anziché senza la Messa. Pregare Dio per i vivi e per i morti, pertanto, è il giusto coronamento delle opere di misericordia spirituale. Noi sappiamo che da Dio veniamo e a Lui ritorneremo, ma in questo cammino Egli non è assente e noi stessi siamo chiamati ad entrare in dialogo con Lui, senza dimenticarci della carità, che ci spinge a ricordare il nostro prossimo, vivo o defunto, soprattutto nella preghiera. Come tutte le opere di misericordia spirituale anche la preghiera di richiesta per i vivi e per i morti non è semplicemente un atto univoco, che farebbe del bene semplicemente alla persona per cui si prega. La preghiera per gli altri fa bene principalmente a chi prega, infatti, come ricorda Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787): “Chi prega certamente si salva, chi non prega certamente si danna” (Alfonso Maria de’ Liguori, Del gran mezzo della preghiera, Considerazione XXX). La preghiera costante, fiduciosa e attenta ha, perciò, un’efficacia santificante veramente straordinaria ed è, se così possiamo esprimerci, una strada sicura per la nostra salvezza, meta ultima del nostro cammino di conversione.
+ Francesco Cavina