– Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6-14; Gv 1,1-18 –
È difficile immaginare due parole più distanti tra loro: “Dio” e “carne”. La prima, “Dio”, evoca da sempre le altezze del cielo; la seconda, “carne”, le bassezze della terra. Da quando è spuntata nella sua mente la domanda sul senso della vita, decine di migliaia di anni fa, l’essere umano ha chiamato “Dio” colui che supera il tempo e vive nell’eterno; ha invece chiamato “carne” tutto ciò che soccombe alla legge del tempo e finisce per morire. Dio è incorruttibile, la carne è corruzione; Dio è perfetto, la carne è fragile.
Forse è bene che ricordiamo questa distanza tra Dio e la carne, molto marcata nelle religioni antiche e moderne. È bene che la ricordiamo, per non abituarci a rivelazioni, come quella lanciata da Giovanni nel prologo del suo Vangelo, quando dice che “il Verbo era Dio” e, poco dopo, che “il Verbo si fece carne”. Una rivelazione che in realtà è una rivoluzione: il Verbo lega insieme Dio e la carne. Incredibile: due realtà che sembravano inconciliabili, lontanissime, si intrecciano nel Verbo.
Potrebbe apparire un ragionamento astratto, interessante magari per filosofi e teologi ma poco per tutti gli altri. Proviamo allora a dirlo in un altro modo. Il Creatore del mondo si fa creatura nel mondo; l’Altissimo Signore del cielo e della terra entra nell’esistenza umana attraverso una mangiatoia; la Parola stessa di Dio prende corpo in un bimbo incapace di parola; l’Onnipotente si lascia avvolgere in fasce da una giovane madre. Siamo dentro al cuore del paradosso cristiano, in quel mistero di fronte al quale si deve “prendere o lasciare”, perché una via di mezzo non è possibile. O il Figlio di Dio si è davvero fatto uomo, oppure il nucleo della nostra fede diventa una recita.
Infatti alcuni non accettano questo intreccio tra Dio e la carne, perché sembra uno scandalo. Come si può sporcare la natura di Dio con il corpo umano? Fin dai primi secoli del cristianesimo, qualcuno diceva che il Verbo ha preso le apparenze di un essere umano, ma non lo è diventato davvero. Pensavano di difendere la dignità di Dio, in questo modo, ma in realtà lo offendevano, perché l’amore di Dio ha voluto veramente identificarsi con la fragilità umana. Non ha finto, non è “apparso” in sembianze umane, non ha messo una maschera per sostenere una parte: si è svuotato della sua divinità per diventare uno di noi. Non ha avuto paura della carne.
Sarebbe stato meno scandaloso, certo, se il Verbo, invece di farsi carne, si fosse fatto anima o mente; se avesse cioè preso le parti ritenute più nobili della persona; ma Giovanni dice proprio che si è fatto “carne”, cioè ha preso tutto: corpo, sentimenti, affetti, intelligenza, bisogno di mangiare, bere e dormire. Ha preso anche la nostra debolezza, ha assunto le conseguenze del nostro peccato, si è addossato le nostre paure. Sarebbe pura poesia, il Natale, se quest’anno non avvertissimo che il Verbo si è fatto fragile, di quella stessa fragilità insinuatasi nella nostra carne; carne malata, e non solo per covid, carne impaurita dal crollo di tante sicurezze, carne colpita dalla solitudine, carne lacerata dalla morte e dal lutto. Questo Natale ci mette davanti tutto il peso della carne. E ci aiuta a capire quanto umanamente sia stata folle la decisione del Figlio di Dio di prendere un corpo. Si è buttato nella fossa dei leoni: e non a caso la sua carne, deposta alla nascita sulla mangiatoia, finirà inchiodata su una croce e passerà attraverso un sepolcro, prima di risorgere e tornare al Padre. È follia, ma è la follia dell’amore: quella che spinge tante persone, anche oggi, a donare la vita per gli altri, a regalare energie per chi è piccolo, ferito e svantaggiato, a spendersi nel quotidiano della casa, del lavoro, dei luoghi di cura e di assistenza, delle aule scolastiche e delle comunità cristiane e civili. L’amore non risponde ai criteri dell’efficienza e del guadagno, non mette a bilancio le voci in uscita, ma vive della logica del gratuito, è un “di più” non richiesto.
La nascita di Gesù accende una luce nel buio delle sofferenze planetarie. Il Vangelo non si accoda al coro dei lamentosi, che si limitano a rilevare il male, il dolore, l’angoscia. Giovanni infatti paragona il Verbo di Dio alla luce che “splende nelle tenebre”. Quest’ombra che avvolge la terra, e produce e svela immani sofferenze, questa tenebra che sembra impenetrabile, è solcata da una luce. Non è una luce che abbaglia e risolve tutto con un miracolo; non piomberà Dio dal cielo a dissolvere la crisi. La fede cristiana non vive di attese magiche, ma vive di una presenza che accompagna anche nelle crisi; è come una fiaccola che, nei percorsi notturni, non illumina a giorno, ma serve a scorgere i tratti del sentiero. Il credente sa di non essere solo ad affrontare il dolore; sa che il Verbo si è fatto carne per sostenere la nostra carne, aprirle dei varchi di speranza, darle una prospettiva che la superi. La sofferenza, anche nel credente, rimane: ma è molto diverso attraversarla pensando di essere soli oppure sapendo, viceversa, di essere tenuti per mano da un Dio che conosce il sapore della fatica, un Dio che ha sperimentato la durezza della vita terrena, dalla pietra della mangiatoia al legno della croce. Nessun altro, se non il Verbo fatto carne, può indicare orizzonti che superano la morte; solo lui, Parola eterna, ha parole di vita eterna, che illuminano come fiaccole i passi quotidiani della nostra vita terrena.