Cattedrale di Carpi

Celebrazione in ricordo del 60.mo della “seconda prima Messa” di don Zeno Saltini

23 gennaio 2022

Omelia III domenica del Tempo Ordinario C

(Neem 8,2-4a.5-6-8-10; Sal 118; 1 Cor 12,12-30; Lc 1,1-4; 4,14-21)

“Siamo stati dei lazzaroni! Noi siamo dei falliti! Siamo stati dei delinquenti!”. A qualcuno, a chi l’ha conosciuto, sembrerà di sentire la voce stessa di don Zeno. Questa è una sola delle tante denunce, pronunciate con foga e quasi gridate in un’omelia del 1974. Parole forti, con le quali il fondatore di Nomadelfia marcava un’intera generazione, la sua, colpevole di avere provocato guerre e distruzioni. Ma sono parole che valgono anche per noi, per tutti, in ogni epoca.

Non sono parole al vento, perché provengono dalla bocca di uno che si è guadagnato sul campo una credibilità evangelica. Ricordare la figura di don Zeno nella domenica della parola di Dio, voluta da papa Francesco, assume un fascino speciale: ci rimanda ad una parola che diventa vita, che si incarna nei gesti, che si fa denuncia vibrante perché nasce da un cuore infatuato del Vangelo, innamorato di Gesù di Nazareth.

E proprio la sinagoga di Nazareth, secondo il Vangelo di Luca, è il luogo dal quale prende avvio la predicazione di Gesù. Nella liturgia della parola che ogni sabato si celebrava – e si celebra – nelle sinagoghe, tutti gli uomini adulti potevano prendere in mano un rotolo delle Scritture ebraiche, leggerlo e commentarlo. Tanti altri, dunque, prima di Gesù, avevano compiuto gli stessi gesti: leggere la parola scritta e proporre un’interpretazione orale. Queste due dimensioni della parola, mediate dalla pergamena e dalla voce, non richiedevano doti speciali. Quello che resta unico, letteralmente inaudito, è ciò che segue: Gesù dice che la Scrittura appena letta “oggi si è compiuta”. Dice ai concittadini che quella parola non è rimasta incisa sulla carta e nemmeno si è accontentata di trasferirsi dalla sua bocca alle loro orecchie; dice che quella parola si è resa carne in lui. Anche l’evangelista Giovanni lo dirà, alla sua maniera, all’inizio del Vangelo: “il Verbo si è fatto carne”. Nessun altro può dirlo. Io posso leggere o pronunciare una parola, la posso scrivere, ma non posso dire che “sono” la parola. L’identità tra parola scritta, detta e vissuta è una prerogativa di Gesù. In lui non c’è distanza tra ciò che è scritto, ciò che dice e ciò che fa.

In noi, invece, questa distanza rimane. Noi leggiamo la parola di Dio scritta, la predichiamo, proviamo a spiegarla, ma non la incarneremo mai perfettamente. Nemmeno i santi ci riescono: si avvicinano, arrivano molto in alto, ma resta sempre uno spazio di conversione; la distanza tra la parola di Dio e la mia vita – distanza che si chiama peccato – resta sempre. Da questo punto di vista ha ragione don Zeno: “siamo dei falliti”. Eppure, la stessa parola di Dio ci assicura che il Signore ci ama ugualmente, perché lui ama anche i lazzaroni, i falliti, i delinquenti. È venuto per loro, per noi. Quella parola che Gesù dice compiuta “oggi” non è una parola qualsiasi; è tratta dal libro di Isaia, in un passo riguardante il profeta che Gesù applica a sé stesso. Lì proclama che il dono dello Spirito gli dà un’energia incredibile, per portare ai poveri il lieto annuncio, ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, agli oppressi la libertà. Questo è il programma di Gesù, al quale resterà fedele letteralmente. Davvero in lui la parola non resta sulla carta ma diventa carne. Proprio perché va in cerca della carne fragile, provata, scartata (gli “scartini” di cui parlava don Zeno); Gesù dà carne alla parola. Se si fosse comportato da grande saggio – ce n’erano tanti nel mondo antico – chiuso dentro a quattro mura, dando vita magari ad una scuola, istruendo dei discepoli con pillole di saggezza e ragionamenti elevati, e non si fosse portato sulla strada, non avesse incontrato poveri, prigionieri, ciechi e oppressi di ogni sorta, non avrebbe dato carne a questa parola. Più la parola in noi si fa carne, più ci rende prossimo alla carne dei fratelli e delle sorelle, cioè alle loro fragilità.

Nella prima Messa celebrata proprio in Cattedrale a Carpi, 91 anni fa, don Zeno presentò un giovane che aveva preso con sé, appena uscito dal carcere. Quel prete novello era venuto per proclamare la libertà ai prigionieri. Si circonderà poi di ragazzi che vivevano tante forme di disagio, portando così il lieto annuncio ai poveri. Busserà alle porte delle autorità, nella Chiesa e nello Stato – trovandole spesso purtroppo chiuse – per cercare di ridare ai ciechi la vista, per evitare che nascondessero la testa sotto la sabbia. Vivrà e predicherà una grande libertà interiore, che lo renderà indigesto a tanti, come accade sempre ai profeti; ma in questo modo darà il proprio contributo per portare agli oppressi la libertà. Non ha eguagliato Gesù – cosa impossibile – ma si è avvicinato molto a lui nell’identificazione tra parola e vita. Don Zeno è stato una specie di Vangelo ambulante. Non pretendeva di tradurre in realtà “tutto” il Vangelo – del resto San Paolo ci ha appena detto ciascuno di noi è solo una delle membra del corpo di Cristo – ma sentiva di dover interpretarne fino in fondo la radicalità. Don Zeno è un dono che va donato, specialmente agli ultimi, i destinatari della missione di Gesù.

+ Erio Castellucci