da Prime Notizie del Settimanale diocesano –>
La vicenda di Luigi, il piccolo di pochi giorni ritrovato il 19 luglio scorso nella culla termica presso la parrocchia di San Giovanni Battista a Poggiofranco di Bari, riporta all’attenzione pubblica la realtà delle cosiddette “culle per la vita” nel nostro Paese. Attualmente, in Emilia-Romagna ce ne sono tre: a Bologna, a Parma e a Piacenza. Una quarta, quella a Finale Emilia, inaugurata nel 2006 e fortemente voluta dal locale Movimento per la Vita, non è più attiva dal 2012, quando il terremoto ha danneggiato la sede che la ospitava. C’è tuttavia la volontà di ripristinare il servizio, non appena sarà possibile. Da questa vicenda di cronaca, lo spunto per una riflessione con Giulia Guidetti, presidente del Centro di Aiuto alla Vita (Cav) Mamma Nina operante sul territorio di Carpi e Mirandola.
Giulia, come dimostrano le realtà di questo tipo attivate in Italia, i casi di bambini deposti nelle “culle per la vita” sono stati finora rari. Tuttavia, in che modo queste culle sono un segno, non solo per le donne che si trovano ad affrontare una maternità difficile, ma anche per la collettività?
Sì, le culle per la vita sono soprattutto un segno, un’attenzione della comunità che accoglie e non giudica. La possibilità di essere rintracciato per un genitore che faccia una scelta del genere potrebbe avere conseguenze molto negative, potrebbe infatti spingere ad un abbandono che non tuteli il bambino. I casi in cui sono state utilizzate sono veramente pochi nel nostro Paese, mentre sono più conosciute, per esempio, in Germania o in Svizzera. L’Italia ha iniziato prima a portare avanti questa battaglia, perché in Germania la prima culla è stata aperta nel 2000, ma in dieci anni si sono salvati oltre 1000 bambini. Da noi le culle non sono distribuite in modo omogeneo, alcune regioni sono più attive di altre: i bambini che vi accedono sono pochi – e questo non va visto necessariamente come un fatto negativo – ma vale la pena di prevedere questa possibilità anche per salvarne uno solo.
Abbiamo usato non la parola “abbandonare”, ma “deporre”. E’ corretta questa sfumatura linguistica, in rapporto innanzitutto alla tutela del neonato, ma anche nel rispetto del diritto della madre di rimanere nell’anonimato? Come mai le culle per la vita sono così poche sul territorio nazionale e così poco conosciute?
Le culle per la vita nascono in Italia nel 1992, ma fino agli anni venti del ‘900 erano presenti nei conventi le ruote degli esposti, poi abolite. Il fenomeno dell’abbandono dei bambini esiste da molti secoli, anzi da sempre, ma nel caso della ruota degli esposti e poi della culla per la vita, più che di abbandono, dovremmo parlare di affidamento. Infatti, l’idea nasce per tutelare il neonato e permettere alla madre di affidarlo in anonimato anche nei mesi successivi al parto. È l’estremo tentativo di evitare che una situazione drammatica, come quella in cui si trovano genitori che decidono di rinunciare al loro bambino, peggiori ulteriormente. Tutti purtroppo ricordiamo i tragici casi in cui sono stati ritrovati neonati abbandonati nei cassonetti come fossero rifiuti, quasi sempre con tragiche conseguenze.
Considerando il ritrovamento del piccolo Luigi a Bari, dalla cura con cui il bambino è stato posto nella culla e dal biglietto lasciato dai genitori, la loro scelta deve essere stata molto sofferta. Forse, verrebbe da pensare, le motivazioni potrebbero essere di carattere economico…
Per me è molto difficile credere che la motivazione di questa scelta disperata sia solo economica, per quanto tale aspetto possa pesare molto anche sulla decisione di portare avanti o meno una gravidanza. La nostra esperienza di Cav, però, ci dice che al fattore economico si intrecciano sempre altre difficoltà, che possono essere, per esempio, psicologiche, di dipendenza o legate alla relazione complicata tra i genitori o ancora con il resto della famiglia.
Proprio due giorni fa è giunto il sì unanime della Camera alla proposta di legge Lepri-Delrio sull’assegno unico universale per figlio. Come commentare questa notizia come presidente del Cav Mamma Nina e come madre?
L’assegno unico è sicuramente un tentativo di dare attenzione alla famiglia, un’attenzione che non sia limitata ad alcune categorie, ma che comprenda tutti i genitori in quanto tali e in modo continuativo. Accorpando gli aiuti che prima solo alcune persone in determinate fasce di reddito potevano richiedere, diventerà accessibile anche a redditi più alti e a lavoratori non dipendenti. Purtroppo l’Italia si muove spesso sull’emergenza ed è già da molto tempo che le associazioni impegnate sul versante della famiglia spingono per ottenere questo risultato. Non penso che sarà sufficiente l’assegno unico per modificare radicalmente la nostra situazione di pesante denatalità, ma credo sia un primo passo.
Parto in anonimato
L’affidamento adottivo si attiva in pochi giorni
Partorire nell’anonimato è un diritto della donna: può fare presente questa sua decisione nel momento della presa in carico da parte dell’ospedale, permettendo che il bambino sia affidato subito ai servizi preposti e che l’affidamento preadottivo si attivi in pochi giorni (la madre ha alcune settimane di tempo per cambiare idea). Invece, rinunciare alla patria potestà di un figlio riconosciuto è una procedura molto più complessa, bisogna rivolgersi ad un avvocato e al tribunale che deve poi dichiarare l’adottabilità del minore. In questo senso si capisce meglio l’idea dell’“abbandono” tutelato dalle culle per la vita. L’anonimato per chi si trova in una situazione drammatica e fa questa scelta è fondamentale, la collettività accoglie il bambino e, per così dire, non giudica i genitori né la loro scelta.
Il Centro di Aiuto alla Vita Mamma Nina di Carpi è sempre disponibile all’ascolto delle donne in gravidanza e delle mamme e ad indirizzare verso i servizi e gli aiuti esistenti sul territorio.
Cav Mamma Nina, tel. 338 28 54 271; E-mail: cav.carpi@gmail.com