“E camminava con loro” – Lettera pastorale di Mons. Castellucci al popolo di Dio della Chiesa di Carpi

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“E camminava con loro”
Lettera pastorale al popolo di Dio della Chiesa di Carpi

+ Erio Castellucci

Amministratore apostolico

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Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane
(Vangelo di Luca 24,13-35)

Camminava con i due discepoli di Emmaus, Gesù, dopo essersi avvicinato a loro. Quel percorso non era però rivolto verso Gerusalemme, ma orientato nella direzione inversa. Qualche tempo prima, “prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme” (Lc 9,51), dirigendosi verso la Città santa con i discepoli, sapendo che avrebbe incontrato l’odio dei nemici e la morte. Riuscì a portare tutti i discepoli a Gerusalemme, ma non riuscì a portarli tutti sotto la croce: anzi, uno solo giunse fino al Calvario, insieme alle donne e alla madre. Il cammino verso Gerusalemme è il percorso della fedeltà, dell’abbandono alla volontà del Padre, della volontà di portare l’annuncio del Regno di Dio fino al cuore del suo popolo.

Ma i due discepoli camminano in direzione inversa, ritornano al loro villaggio di Emmaus. Quegli undici chilometri di distanza sono in realtà la distanza di una vita. Sono rimasti scossi dalla crocifissione del loro maestro, al punto da rimettere in discussione tutto: se Gesù è finito così malamente, se Dio ha permesso che fosse svergognato su un patibolo, se non l’ha assistito e salvato in quel momento, non poteva certamente essere il Messia atteso. Dovevano sentirsi ingannati, presi in giro da un impostore. Girano le spalle ormai a Gerusalemme, perché la loro speranza è crollata, sono convinti di avere sciupato una parte della loro vita e ritornano al loro villaggio d’origine. Pazienza: chiusa la parentesi. “Noi speravamo”… dicono allo sconosciuto che li affianca: l’imperfetto è il tempo della delusione e del rimpianto.

Quegli undici chilometri sarebbero stati un lungo sospiro, se non si fosse affiancato quell’estraneo, che si mette al loro passo. Il particolare che mi colpisce di più nel racconto di Luca è proprio questo: Gesù prende il passo dei due discepoli. Non cerca di convincerli a fermarsi o a tornare indietro; e nemmeno impone lui il ritmo del cammino. No, cammina “con” loro. Assume il passo dei delusi, degli scoraggiati, di quelli che si sentono traditi e presi in giro, dei dubbiosi, di chi sente di avere sbagliato nella vita. Gesù nel Vangelo non impone mai un passo, ma si affianca sempre al passo dell’uomo.

* * *

     Gesù cammina “con” noi, con noi discepoli di oggi, con l’umanità del nostro tempo, con la Chiesa del duemila, con la nostra Chiesa di Carpi. Il nostro passo è stanco? Il nostro cuore è ferito? Viviamo fragilità e fatiche? Lui cammina con noi. Giriamo le spalle a Gerusalemme? Siamo discepoli delusi dall’esperienza cristiana? Lui cammina con noi. Ci affianca e non ci impone né la retromarcia né la corsa. Parte sempre dal punto in cui siamo.

E noi siamo in cammino, sulla strada percorsa nei tempi recenti insieme ai pastori di questa Chiesa. Penso a tanti presbiteri e penso in particolare ai vescovi di Carpi che ho personalmente conosciuto: sia quelli che hanno già concluso il cammino terreno, Artemio, Alessandro e Bassano, sia quelli emeriti, Elio e Francesco. Lo Spirito sta chiedendo a tutti di proseguire il cammino, tenendo i piedi sulle strade dell’uomo e lo sguardo al Vangelo; di chiudere le polemiche, sedare i risentimenti e cercare la comunione. Mormorazioni, accuse, rivalse devono lasciare il posto al desiderio di costruire.

La Chiesa di Carpi, dunque, riparte anche quest’anno con la forza del Signore risorto. Il Papa, nella sua visita alla diocesi del 2 aprile 2017, ha pronunciato parole molto incisive, alludendo anche al terribile sisma del 2012: «Cari fratelli e sorelle, anche noi siamo invitati a decidere da che parte stare. Si può stare dalla parte del sepolcro oppure dalla parte di Gesù. C’è chi si lascia chiudere nella tristezza e chi si apre alla speranza. C’è chi resta intrappolato nelle macerie della vita e chi, come voi, con l’aiuto di Dio solleva le macerie e ricostruisce con paziente speranza». La capacità di rialzarsi, riprendere vita, ricostruire – capacità che si esprime anche nella restituzione ai cittadini delle case, degli edifici pubblici e delle chiese – si manifesterà con la stessa forza anche nella prosecuzione del cammino diocesano.

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     Un cammino indicato da papa Francesco nella “sinodalità”: «Il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio» (17 ottobre 2015). Fare “sinodo” significa “camminare insieme”. Gesù assume con i due discepoli di Emmaus uno stile sinodale, appunto perché cammina con loro. Tenendo sullo sfondo il documento programmatico di papa Francesco, l’esortazione Evangelii Gaudium (24 novembre 2013), da lui indicata come il programma del suo pontificato, propongo tre aspetti della sinodalità per l’anno pastorale 2019-2020, sui quali invito a riflettere le comunità cristiane della diocesi di Carpi, parrocchie, gruppi, associazioni: la vocazione alla santità, la comunione ecclesiale e la testimonianza nella società. Non sono argomenti pensati alla scrivania; li ho maturati in queste prime settimane del mio servizio come amministratore apostolico, rimanendo positivamente colpito dalla testimonianza di santi, beati e amici di Dio in questa diocesi; dal desiderio di costruire la comunità cristiana mettendo in circolazione i diversi carismi, molti dei quali organizzati nell’associazionismo che qui trova espressioni consolidate; e dalla presenza di tante persone, laici e pastori, preparate e sensibili non solo nell’ambito della teologia, ma anche nei campi percorsi dalla dottrina sociale della Chiesa.

1. Gesù cammina con noi chiamandoci alla santità “della porta accanto”

La vocazione alla santità potrebbe sembrare una dimensione astratta, ma è la più concreta che possiamo immaginare. Gesù entra nel cuore dei due discepoli a poco a poco, portando una profonda conversione, che cambierà la loro vita. La questione decisiva della nostra esistenza è proprio questa: convertirci, diventare santi. Non pensiamo solo alla santità ufficialmente proclamata attraverso i processi di canonizzazione: certo, questo riconoscimento è importante e spinge all’imitazione, attivando le migliori energie interiori. Ma pensiamo soprattutto ai “santi della porta accanto”, di cui parla papa Francesco: «Lo Spirito Santo riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio (…). Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”»
(Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, 19 marzo 2018, nn. 6-7).

Pensiamo a quel bene immenso che rimane spesso nascosto, ma che costituisce il tessuto quotidiano delle nostre relazioni: dentro le famiglie, nei luoghi di lavoro e di cura, nelle occasioni di incontro, nel diffuso volontariato, nell’impegno sincero per il bene comune e per la costruzione della comunità cristiana. Un bene inestimabile, che non fa rumore. Mentre il male spesso esplode, il bene si preoccupa di radicarsi in profondità. Se paragoniamo la Chiesa e la società ad un albero, il male assomiglia alle fronde agitate dal vento, mentre il bene è piuttosto simile alle radici: invisibili, ma decisive per la vita e la salute della pianta. Di fronte alla santità domestica, “normale”, umile, non abbiamo il diritto di perderci nelle accuse e nelle maldicenze, nelle vendette e nei risentimenti. Esiste una rete di relazioni umane e cristiane di tale preziosità, che merita le nostre energie, senza perdere tempo negli attacchi fratricidi.

Chiesa di Carpi, terra di testimoni eccezionali
I santi proclamati, dicevo, hanno la funzione di estrarre dal nostro cuore le forze più sane; sono come la punta dell’iceberg, che emerge solo per un decimo rispetto alla sua massa; per ogni santo riconosciuto, ce ne sono moltissimi sommersi. La Chiesa di Carpi è una terra di testimoni eccezionali. Ne ricordo alcuni di quelli emersi negli ultimi secoli, che ci invitano a dare ossigeno alle nostre risorse migliori.

San Bernardino Realino (1530-1616), con la sua profonda cultura umanistica e giuridica, la conversione religiosa da una vita dissipata e l’intenso impegno come educatore gesuita, è la prova che il Signore ci può raggiungere dovunque, anche nella confusione e negli errori, e trasformare la nostra umanità in dono per i fratelli.

Il Beato Odoardo Focherini (1907-1944), “giusto tra le nazioni”, ucciso dai nazisti a Flossenburg, nel sottocampo di Hersbruck, rappresenta per tutti e specialmente per i giovani e gli appartenenti all’Azione Cattolica l’esempio di come lo Spirito agisca nell’ordinarietà del lavoro, della famiglia, dell’impegno associativo, alimentando un eroismo quotidiano che può sfociare perfino nella testimonianza suprema del martirio.

La Venerabile Marianna Saltini, nota come Mamma Nina (1889-1957), madre di sei figli, vedova e poi mamma di mille figlie salvate dall’abbandono, è lo strumento della Provvidenza che accompagna chi vi si affida, leggendo tutte le situazioni della vita – comprese quelle dolorose – come opportunità per seminare il bene.

E suo fratello, il Servo di Dio don Zeno Saltini (1900-1981), fondatore della Comunità di Nomadelfia, uomo e sacerdote di eccezionale energia e carattere impetuoso, fa capire che il Signore continua ad inviare profeti tra il suo popolo.

La Serva di Dio Albertina Violi Zirondoli (1901-1972), dedicando tutta la vita all’insegnamento come vera e propria “maestra di vita” e non solo di scuola e come prima presidente del CIF a Carpi, trovò poi nel Movimento dei Focolari il contesto per vivere integralmente quella vocazione laicale formativa che già come sposa e madre aveva scelto.

Ma si deve ricordare anche Camilla Pio (1440-1504), fondatrice del primo Monastero femminile di Carpi dedicato a Santa Chiara e ancora oggi vivo e fiorente; e in tempi recenti la bella figura di don Francesco Venturelli (1888-1946), impegnato nell’assistenza al campo di concentramento di Fossoli, medaglia d’oro al valor civile, ucciso da uno sconosciuto; e si possono menzionare anche le recentissime figure dell’industriale Alfio Po o del diacono Germano Rustichelli, insieme ad innumerevoli laici e laiche, ministri ordinati, religiosi e religiose, che hanno segnato la vita di tanti, credenti e non credenti.

Non mancheranno certo le occasioni, durante l’anno, per fare memoria di questi amici di Dio e di altri che il Signore ci ha fatto incontrare nel nostro cammino. In questo anno pastorale, in modo particolare, vorremmo ricordare il Beato Focherini in prossimità del 75° anniversario della sua morte, avvenuta il 27 dicembre 1944. Sarà un’occasione, da preparare e celebrare insieme come diocesi, per ravvivarne la testimonianza, richiamare i doni di cui il Signore lo ha dotato e rilanciare la vocazione cristiana nell’impegno familiare, ecclesiale, professionale e sociale.

Onorare i santi proclamati significa esaltare la santità diffusa, quella sommersa, perché immersa nel quotidiano delle nostre famiglie, parrocchie, comunità, scuole, case di cura, officine, strade, città… significa risvegliare il desiderio di estrarre dal cuore le risorse più belle, quelle che si riassumono nella parola “amore”; significa trovare la strada della gioia, perché noi siamo fatti per donare, non per trattenere egoisticamente i regali ricevuti dal Signore.

2. I discepoli camminano con Gesù diventando “Chiesa”

Se il primo aspetto della sinodalità riguarda il cammino che Gesù vuole compiere con ciascuno di noi, affiancandoci per suscitare la santità, il secondo aspetto riguarda il percorso che fa con noi rendendoci “Chiesa”. I due discepoli partono da Gerusalemme come individui sconsolati e dispersi e arrivano a Emmaus come Chiesa convocata. Giunti al loro villaggio, dopo avere cenato con Gesù, hanno vissuto infatti le tre esperienze costitutive della comunità cristiana: ascolto della parola, accoglienza del fratello, frazione del pane.

Lungo la strada hanno ascoltato Gesù, che spiegava le Scritture e faceva capire loro, con pazienza, che era proprio lui il Messia; aprì la loro mente alla comprensione profonda del piano di Dio; non però in astratto, ma intercettando la loro esistenza, le loro domande profonde, la loro sofferenza: per questo diranno: “non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo la strada?”. Il cuore “arde” quando la parola del Signore non è calata come un bel ragionamento o una regola morale, ma è proposta come un annuncio gioioso, che cambia la vita, come la bella notizia che Dio ci ama, che la morte non è la fine di tutto, che Cristo non è stato mangiato dal sepolcro ma è risorto e vivo. La parola scalda il cuore quando è testimonianza.

I due discepoli fanno poi l’esperienza dell’accoglienza fraterna. Dopo avere ascoltato la parola di Gesù, giunti al villaggio, lo invitano a fermarsi. “Resta con noi, perché si fa sera”. Chi stanno invitando a casa? Non hanno ancora capito che è Gesù: fino a quel punto lo hanno chiamato “forestiero”: ” solo tu sei forestiero a Gerusalemme!”… Certo, ascoltandolo hanno capito che non è un nemico, come spesso è considerato lo straniero. Hanno anzi avvertito dentro di loro che quel forestiero ha dei doni, può arricchirli nell’animo. Lo invitano a rimanere per rispetto nei suoi confronti, certo, ma anche per desiderio di ricevere loro stessi beneficio dalla sua permanenza. Perché l’accoglienza dell’altro, quando è autentica, arricchisce sia colui che è accolto sia colui che accoglie: rende entrambi più umani, dà voce alla parte migliore di sé. “Si fa sera”, dunque, non solo nel cielo ma anche nel cuore: e la sera del cuore la può rischiarare solo l’accoglienza. Accolgono un forestiero e non sanno che in realtà accolgono il Signore. Lui stesso aveva detto: “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35).

Quando Gesù spezza il pane e pronuncia la benedizione, allora e solo allora lo riconoscono. Il misterioso forestiero si svela nel gesto di donarsi. Riconosce il Signore chi lo accoglie mentre si “sbriciola”, si fa piccolo, si offre. Tante volte pensiamo che Dio vada conquistato a suon di meriti – come ritenevano i farisei del tempo di Gesù – e ci dimentichiamo che è lui a conquistare noi, ad avere già meritato la salvezza. La fede matura non è la granitica rivendicazione di “verità” astratte, ma l’umile cammino di riconoscimento del Signore nel pane, nei fratelli, nei poveri. Il significato dell’eucaristia, consegnata da Gesù alla sua comunità come anticipo del sacrificio della croce, è proprio questo: donando realmente il suo corpo nel pane, il Signore ci dà l’energia per diventare noi stessi corpo nella comunità e servirlo nelle sue membra, soprattutto i fratelli piccoli e poveri (cf. 1 Cor 10,16-17; 11,17-34). Il corpo eucaristico è la forza interiore del corpo ecclesiale, fermento a sua volta del corpo sociale.

Le tre esperienze dei discepoli di Emmaus, dunque, li trasformano in “Chiesa”, perché “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20). Queste tre esperienze costituiscono per tutti i tempi e tutti i luoghi la colonna vertebrale della Chiesa. C’è comunità cristiana dove la parola risuona e corre, dove i sacramenti e specialmente l’eucaristia radunano le persone e li spingono alla missione e dove la fraternità si esprime nell’accoglienza e nella condivisione. La parrocchia può essere grande o piccola, ben fornita di strutture o povera di mezzi, ma il criterio fondamentale per essere “Chiesa” si misura su queste tre grandi esperienze.

E’ la comunità che annuncia, celebra e tesse la rete della fraternità
     Chi custodisce l’annuncio, la celebrazione e la fraternità? La risposta è: l’intera comunità cristiana, il popolo di Dio nella varietà dei suoi carismi. I pastori testimoniano che i doni della parola, dei sacramenti e della carità fraterna provengono dal Signore: ma non ne sono né i mediatori né tanto meno i detentori: giustamente papa Francesco mette spesso in guardia dal rischio del clericalismo, sintomo e causa di equivoci, disagi, incomprensioni e persino abusi di potere e di coscienza nella Chiesa. I pastori umani, verso i quali va l’immensa gratitudine dei fedeli, sono i ministri della grazia, sono i “collaboratori della gioia” della comunità cristiana (cf. 2 Cor 1,24), sono i segni viventi che Cristo stesso, come unico buon Pastore, raduna il suo gregge e lo pasce. L’intera comunità annuncia la parola di Dio, celebra l’eucaristia e tesse la rete della fraternità. Il pastore – presbitero o vescovo – “presiede” la missione dell’intero popolo di Dio. Come scrivono Sant’Agostino e San Gregorio Magno, il presiedere deve essere inteso come “essere per” (prae-esse come prod-esse: cf. rispettivamente La Città di Dio 19,19 e La regola pastorale 11,6) e mai come uno “spadroneggiare” (cf. 1 Pt 5,3): per favorire la missione di tutti e non certo per assorbirla in sé o per ostacolarla. Il fatto che la Chiesa non sia una “democrazia”, non significa che sia una “monarchia”. La Chiesa è, appunto, un “sinodo”.

Il Concilio Vaticano II, recuperando le prospettive del Nuovo Testamento e della Tradizione, ha rimesso in primo piano la visione della Chiesa come popolo di Dio in cammino nella storia. Ed ha avviato un processo di “sinodalità” che passa anche attraverso alcuni strumenti di partecipazione e corresponsabilità nella vita della Chiesa. Un obiettivo per questo anno pastorale, in linea con l’Esortazione di San Giovanni Paolo II Novo millennio ineunte (6 gennaio 2001, n. 45), è la costituzione o il rinnovamento di questi organismi in diocesi, nelle zone e nelle parrocchie: il consiglio presbiterale, il consiglio pastorale diocesano, i consigli pastorali parrocchiali e zonali.

Il consiglio pastorale diocesano, in particolare, vedrà impegnate le parrocchie e le zone della nostra diocesi nei primi due mesi dell’anno pastorale, per arrivare ad una prima convocazione a fine novembre 2019. Sono certo che anche le associazioni, specialmente l’Azione Cattolica e l’Agesci, daranno un contributo fondamentale per rendere “sinodale” l’esperienza stessa della costituzione del consiglio pastorale diocesano. Le indicazioni operative, conformi ai regolamenti in vigore, verranno offerte nei prossimi giorni a tutte le parrocchie. Gli organismi di partecipazione sono espressione ma anche incentivo della sinodalità, a patto di diventare occasioni di “discernimento comunitario” sui grandi ambiti della pastorale – e non solo finalizzato all’organizzazione di eventi – e luogo di confronto leale, franco e rispettoso. Le derive, che portano alla demotivazione, sono legate non solo al già menzionato clericalismo, ma anche ad una sorta di “particolarismo” che potrebbe infiltrarvisi, trasformando i consigli pastorali in occasioni nelle quali ciascuno difende l’interesse della propria “parte”; è essenziale sperimentare invece la “cattolicità”, cioè assumere uno sguardo verso il “tutto”, un senso di Chiesa che sappia vedere le singole questioni in modo globale.

3. I discepoli camminano verso Gerusalemme per testimoniare il Risorto

Appena i due discepoli comprendono che è il Signore, appena si aprono i loro occhi, lui sparisce dalla vista. Proprio sul più bello. Chissà quante domande avevano da rivolgergli; chissà quale entusiasmo desideravano esprimergli. Niente: lui scompare. Che cosa fanno a quel punto? La tentazione si riaffaccia: lamentarsi, rimpiangere, recriminare. No: partono, anzi ri-partono; ormai in piena notte, ripercorrono a ritroso gli undici chilometri che li separano da Gerusalemme. Sono stanchi, ma trovano le energie per camminare ancora. E questa volta verso la Città santa, quella che li aveva delusi e scoraggiati, quella a cui avevano girato le spalle poche ore prima. Vanno a Gerusalemme ad incontrare gli apostoli, a narrare e ascoltare l’annuncio della Pasqua di Gesù.

Credo che il Signore sia scomparso perché loro potessero mettersi in cammino. Se Gesù fosse rimasto con loro, una volta riconosciuto, avrebbero fatto un “cerchio magico”, si sarebbero stretti attorno a lui, sarebbero rimasti bloccati dall’ammirazione e dallo stupore. Invece Gesù li vuole rimettere in moto e farne dei missionari. Lui non ha bisogno di ammiratori, ma di annunciatori. La comunità cristiana esiste per evangelizzazione, come illustrò magnificamente San Paolo VI nell’esortazione Evangelii Nuntiandi (8 dicembre 1975).

I due discepoli in cammino da Emmaus a Gerusalemme sono la Chiesa missionaria, che non ha paura di camminare nella notte, portandosi dietro le fatiche del viaggio e il peso dei propri errori. Con l’unico scopo di annunciare e ricevere l’annuncio. Non importa se sono solo due, perché nel Vangelo non conta la massa. Quando Gesù aveva chiamato i primi discepoli, li aveva inviati ad essere “sale” e “luce” (cf. Mt 5,13-16). Avrebbe potuto usare delle immagini più forti e invece usa queste due immagini deboli; avrebbe potuto dire: “siate l’esercito della salvezza”, o “i militari del Regno”; poteva richiamare l’idea della fortezza, del castello, della reggia. Invece solo “sale” e “luce”: due elementi che realizzano il loro compito scomparendo, mettendo in risalto altro da sé. Il sale compie il proprio servizio sciogliendosi nelle pietanze e la luce lo compie dando colore alle cose. Chi ha fame non morde il sale e chi vuole vedere non fissa il sole: sale e luce sono immagini umili, non attirano verso di sé e, anzi, rimandano fuori di sé.

     Essere “minoranza creativa” per determinare il futuro
     Nel suo viaggio di ritorno dalla visita nella Repubblica Ceca, papa Benedetto XVI definì le comunità cristiane di quel paese “minoranze creative”. Questa fu la sua risposta ad un giornalista, nel corso della consueta intervista aerea: «Normalmente sono le minoranze creative che determinano il futuro, e in questo senso la Chiesa cattolica deve comprendersi come minoranza creativa che ha un’eredità di valori che non sono cose del passato, ma sono una realtà molto viva ed attuale. La Chiesa deve attualizzare, essere presente nel dibattito pubblico, nella nostra lotta per un concetto vero di libertà e di pace» (26 settembre 2009). È una geniale indicazione per tutte le comunità cristiane del mondo. Non siamo chiamati a diventare una “minoranza aggressiva”, quasi fossimo circondati da nemici e dovessimo difenderci aggredendo: a volte si ha l’impressione che alcune frange del cattolicesimo cadano in un atteggiamento anti-evangelico, assumendo come paradigma l’arroganza, così diffusa nel dibattito pubblico e nelle relazioni quotidiane. Ma non siamo chiamati nemmeno, all’inverso, ad essere una “minoranza remissiva”, nascondendo la fede e la visione del mondo e dell’uomo che ne deriva: infatti papa Benedetto non dice di scomparire, ma richiama la presenza ecclesiale nel dibattito pubblico, per la libertà e la pace.

“Minoranza creativa” è la comunità cristiana che prima di tutto prende atto di essere, appunto “minoranza”. Senza perdere troppo tempo a lamentarsi per il fatto di non essere più “maggioranza”, senza impiegare troppe energie nel “restauro” e nella “conservazione” di strutture pastorali e sociali che rischiano oggi di rappresentare più delle zavorre che degli strumenti di evangelizzazione; senza assumere l’atteggiamento di chi deve insegnare a tutti gli altri come si sta al mondo. Siamo “minoranza”: è un dato di fatto, da accettare e trasformare in una opportunità per una presenza più dinamica, missionaria, evangelica. Nemmeno possiamo contare molto sulle evidenze della “legge naturale”: pur essendo una categoria irrinunciabile, per evitare l’arbitrio dei poteri di turno e riaffermare il primato della coscienza personale, non è ormai moneta spendibile nel confronto con altre culture e religioni, essendo venuta meno appunto l’evidenza.

Questo non significa rinunciare ad un apporto cristiano nella società: significa rinnovarlo, pena l’irrilevanza. Se siamo minoranza “creativa”, dobbiamo individuare i nuovi cammini attraverso i quali il Vangelo di Gesù morto e risorto possa diventare un regalo per gli uomini di oggi. Cammini che, per essere evangelici, necessitano di plasmarsi sulla parola di Dio incarnata in Gesù morto e risorto e in modo speciale sulle beatitudini, sul discorso della montagna, sulle parabole, sugli incontri e i miracoli di Gesù. Cammini che siano piccoli “sinodi” nella città degli uomini. Cammini non “contro” e nemmeno semplicemente “accanto”, ma “con” i nostri contemporanei.

     La testimonianza dei cattolici nella società e il contributo al bene comune
     La Chiesa non corre parallela al mondo e tantomeno lo sorvola dall’alto. Come afferma il Concilio Vaticano II, «Dio ha convocato tutti coloro che guardano con fede a Gesù» (Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 9). A me sembra una delle più significative descrizioni della Chiesa: «coloro che guardano con fede a Gesù»; non un “genere a parte”, ma gli uomini e le donne che vivono nel mondo, lavorano e si impegnano in famiglia, soffrono e gioiscono, sbagliano e si correggono… guardando a Gesù come al loro Signore. La Chiesa è quel “pezzo di mondo” che crede nel Signore risorto e vivo; e che da questa fede trae l’energia per amare, impegnarsi, collaborare al bene comune insieme a tutti gli altri cittadini.

Sappiamo tutti quanto sia complessa la testimonianza cristiana nel mondo di oggi. Conosciamo l’indifferenza, l’ostilità, l’allergia verso tutto ciò che sa di “Chiesa”. Non mi inoltro nell’analisi di questo fenomeno, da alcuni chiamato “secolarizzazione” e da altri, forse con maggiore esattezza, “scristianizzazione”. Il magistero degli ultimi decenni è ricco di analisi, critiche e proposte in merito. E ciascun cristiano, singolarmente o in forma associata, ha certamente elaborato una propria visione. Mi limito solo a suggerire un’ipotesi per questo anno pastorale, ancora in chiave “sinodale”: potremmo pensare, magari in primavera, ad un’occasione di incontro – convegno, assemblea o altro – nella quale, partendo dal consiglio pastorale diocesano e allargando l’invito a tutti i cittadini, non solo ai fedeli praticanti, possiamo affrontare l’argomento del contributo cristiano al bene comune o, altrimenti detto, della testimonianza ecclesiale nella società?

Si tratterebbe non tanto di fornire una mappa “enciclopedica” di temi, quanto di offrire alla pubblica riflessione, e discutere, lo stile con il quale intendiamo continuare a donare la nostra testimonianza nel territorio della diocesi di Carpi. Uno stile, certamente articolato e denso di sfumature, che è delineato in modo incisivo e aggiornato dal magistero di papa Francesco e che si può esprimere in tutti i grandi capitoli della dottrina sociale e dell’antropologia cristiana: vita, famiglia, educazione, pace, giustizia, rispetto del creato… Sui singoli temi spesso ci dividiamo, anche tra cattolici; varrebbe la pena di mettere a punto in modo sinodale uno stile evangelico, non per arrivare al pensiero unico, ma per arrivare alla possibilità di un confronto sereno e argomentato dentro la comunità cristiana e la comunità civile.

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     La Vergine Assunta, alla quale è dedicata la nostra bellissima Cattedrale, sostenga il cammino dell’anno pastorale che si apre. Lei, che ha camminato nella speranza, percorrendo i sentieri faticosi dell’obbedienza e quelli gioiosi dell’affidamento, guidi i passi della nostra Chiesa di Carpi.

+ Erio Castellucci
Amministratore apostolico

Carpi, 1 ottobre 2019

Memoria di Santa Teresa del Bambino Gesù e del Santo Volto