Nomadelfia esiste

Giovani studenti di Nomadelfia in visita al Campo di Fossoli nel maggio scorso 9-12

Col passare degli anni anche lo spirito polemico di don Zeno si attenua, e parlando di Nomadelfia la definisce così: Che cos’è Nomadelfia? Non è un ordine religioso, né una congregazione, né un’opera di assistenza, né un ente morale. È un popolo. Nomadelfia non è vincolata alla Chiesa se non come sono i vincolati i cattolici di tutto il mondo; non è vincolata allo Stato che non può impedirci di unirci e di amarci.
Lo stesso vale anche per Nomadelfia, il cui nome è già un programma: è il luogo in cui la fraternità è legge. Quando venne concepita da don Zeno Saltini vi erano tanti bambini senza genitori e un certo numero di donne che non intendeva sposarsi ma sognava di poter essere chiamata mamma. Don Zeno cercò di programmare e realizzare quel desiderio.
Oggi chi visita Nomadelfia è colto da tante obiezioni a cui non sa rispondere, e forse non lo sanno neppure quelli che la abitano. Ma vi è una realtà che va oltre ogni obiezione: Nomadelfia esiste.
Non tutti ne condividono i modi di vita, non tutti trovano
una giustificazione alla sua esistenza, ma rimane un dato di fatto: Nomadelfia esiste.
In essa non vi è denaro ma solo scambio; vi è una scuola interna che potrebbe rendere difficile per chi ha studiato l’inserimento successivo nella società cosiddetta “normale” e bisognerà quindi provvedervi. Rimane un fatto incontestabile: Nomadelfia esiste.
Per chi non la conosce: si tratta di un vasto territorio, vicino a Grosseto, abitato da poco più di 300 persone, dove i nuclei familiari sono piuttosto numerosi, perché sono composti o da famiglie adottive o da sposi che hanno figli propri ma che sono disposti anche ad accettarne altri, senza fare distinzione tra i figli naturali e i figli adottivi.
Lo so bene che tale situazione non è applicabile a tutta l’umanità, ma intanto vi è un dato di fatto: Nomadelfia esiste.
Maurilio Guasco – dal volume “In santità ostinata e contraria” – Don Zeno e i “matti di Dio” – Il Mulino (2018)

Profezia da ripensare per l’oggi
Don Zeno, Nomadelfia e la chiesa in cammino sinodale: una riscoperta fruttuosa
di Brunetto Salvarani
Parto da un ricordo personale. Nel 1996, per lanciare, con le testimonianze di illustri personaggi, la nascita della Fondazione Fossoli, avevamo deciso di recarci a Milano, dove, in Galleria Vittorio Emanuele, c’era lo studio del giornalista Enzo Biagi. Il quale, appena ci vide e senza conoscerci direttamente, ripensando al campo di Fossoli si mise a raccontarci di don Zeno, di Nomadelfia e di quando – da direttore del telegiornale della RAI – scelse di inserire fra le prime tre notizie della giornata la seconda prima messa di don Zeno.
Per dire la rilevanza nazionale della vicenda. Era il 6 gennaio 1962, e con quella curiosa dizione si indicava il suo ritorno al presbiterato a pieno titolo nonché la conclusione della crisi di Nomadelfi a, migrata nel frattempo dalla frazione carpigiana ai dintorni di Grosseto, dove tutt’ora sperimenta la possibilità di vivere comunitariamente il vangelo, alla maniera dei primi cristiani descritti negli Atti degli apostoli: “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti avevano un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune” (At 4,32). Rimasi molto colpito dal calore con cui, oltre trent’anni dopo l’evento, Biagi ripercorse i tratti della figura – straordinaria, ci disse apertamente – del prete fossolese; e solo dopo pensai al fatto che, nell’ottobre di quello stesso 1962, si sarebbe aperto il concilio Vaticano II, Pentecoste per il nostro tempo.
Alla sua maniera, don Zeno era annoverabile fra i pionieri che l’avevano anticipato, e, in qualche modo, reso possibile. Così lo descriveva la grande scrittrice Anna Maria Ortese, entrata in contatto con lui come tanti intellettuali dell’epoca: “Non era un prete, ma qualcosa di più. Non era un politico, malgrado avesse attaccato così arditamente fatti e persone del governo; né un diplomatico, perché aveva perduto tutto. Un educatore neppure, perché la sua rude semplicità glielo impediva. Ci chiedevamo segretamente a chi e a che cosa somigliasse, chi fosse in realtà quest’uomo buono, leale, impulsivo…”.
Ecco perché non ci si può che rallegrare dell’odierna
riscoperta – possiamo chiamarla così? – di don Zeno e della sua creatura, Nomadelfi a, da parte della sua diocesi d’origine. Cosa che avviene sulla scia delle parole contenute nella prima lettera pastorale inviata dal vescovo Erio alla nostra chiesa, nel 2019, dal titolo E camminava con loro, in cui egli rilanciava la litania dei testimoni eccezionali
della fede sfornati nei secoli da questa chiesa locale: da Camilla Pio a Bernardino Realino, da Odoardo Focherini a Mamma Nina fino a don Zeno di Nomadelfi a, appunto. Nonché, è lecito immaginare, dalla visita di papa Francesco in terra maremmana, il 10 maggio 2018, quando, incontrando i nomadelfi nel ricordo del loro fondatore, li invitò a proseguire senza timori nel loro itinerario: “Vi esorto a continuare questo stile di vita, confidando nella forza del vangelo e dello Spirito Santo, mediante la vostra limpida testimonianza cristiana”. La tappa di Nomadelfi a fu una di quelle che Bergoglio decise di toccare in pochi mesi, in un’ideale geografia della profezia postconciliare non sempre capita fino in fondo, ma capace di seminare vangelo in profondità, insieme alla Barbiana di don Milani, alla Puglia del vescovo di Pax Christi, Tonino Bello, e alla Loppiano di Chiara Lubich e dei suoi focolarini. Figure che hanno pagato a caro prezzo la loro fedeltà alla Chiesa, e il loro sguardo vasto. È quanto capitò anche a don Zeno, che spesso fu frainteso nella sua passione per i suoi ragazzi e dovette a lungo soffrire per questo. Vorrei dire: esistono numerose ragioni, ancora oggi, per ripensare fruttuosamente a lui e alle sue intuizioni! Attenzione, ho scritto per ripensare a lui e a quanto egli sia necessario per la
Chiesa italiana, non per risarcirlo: perché un risarcimento, o una riabilitazione, è ciò che fanno in genere le dittature verso le loro vittime, dopo la morte di queste ultime, e quando esse non possono più nuocere. Il fatto è che è la nostra Chiesa, se intende esercitare la memoria pericolosa del suo Signore Gesù (come la chiama il teovia logo Metz), a non poter fare a meno di don Zeno e della sua profezia scomoda (Il profeta scomodo
è il titolo di una sua biografia uscita nel ’91). Della sua parola, così spesso urticante perché radicalmente evangelica. Della sua costante disponibilità a mettersi in gioco senza paura di andare controcorrente. Del suo sogno di equità e uguaglianza sociale, nato nella campagna fossolese della sua infanzia e cresciuto negli studi di Legge ma soprattutto a contatto con la gente semplice e con gli scartati della società. Della sua scelta di abitare a testa alta i territori dell’utopia e della speranza, anche quando ciò creava imbarazzo presso quanti si ergevano minacciosi contro di lui, sentendosi i reali detentori del sacro.
Sì, di don Zeno abbiamo ancora bisogno, e penso ne avremo sempre più bisogno se intendiamo – come mi auguro – prendere sul serio il continuo invito del papa a diventare una Chiesa in uscita,
senza farne un puro slogan multiuso a effetto. Una Chiesa che – a cominciare dal Cammino sinodale in corso – metta al centro i poveri, e non parli di loro. Che li serva, e non se ne serva. E che, soprattutto, li riconosca finalmente come i primi destinatari del vangelo! La Bibbia, infatti, al contrario di quanto ha tentato di fare una certa tradizione spiritualizzante, non edulcora mai l’esperienza amara della povertà: nelle sue pagine i poveri sono e rimangono coloro che sono privi dei beni essenziali, materiali o culturali, per sopravvivere. Peraltro, tale privazione sottintende un appello a ciascuno di noi affinché ce ne facciamo carico, rispondendo ai bisogni posti dal povero che incontriamo sulla nostra strada, fino a tradurli in germi di giustizia giusta
(è il tema, fra l’altro, dell’imminente edizione del Festivalfilosofia). La povertà descritta dalla Bibbia, prima che alla ragione che intende capire, si rivolge alla coscienza cui è chiesto di agire: questo, don Zeno, l’ha compreso bene e fino in fondo. Imparando dalla vita che, come annota papa Francesco nell’Evangelii gaudium, “nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri” (n. 197).

La gioia di amare e sentirsi amati
Due giovani, Benedetto e Zeno, raccontano come hanno maturato la loro vocazione e hanno chiesto di far parte della fraternità di Nomadelfia
VOCAZIONI
Scegliere Nomadelfia oggi. Si può nascere e crescere a Nomadelfia ma poi ognuno va alla ricerca della propria strada, del suo cammino unico e irripetibile perché ad ogni persona Dio riserva una chiamata particolare. Così è stato per due giovani che raccontano la loro esperienza, Benedetto che inizia ufficialmente il suo percorso di postulante e Zeno che è Nomadelfo effettivo da più di un anno.
 
Benedetto come è nata la tua vocazione?
La scelta di cominciare il cammino da postulante è la continuazione di un percorso che mi ha portato prima lontano da Nomadelfia alla ricerca di una giustizia sociale, un’idea di libertà utopica e l’esigenza di realizzare me stesso. Nelle esperienze che ho vissuto mi sono accorto che il mio pensiero era intriso da ideologie che mi opprimevano più che liberarmi. Dopo una crisi ho chiesto di venire a Nomadelfi per poter riprendere fiato e pensare seriamente alla mia vita, mi sono accorto che prima avrei dovuto affrontare me stesso e la mia storia. Devo dire che fin da piccolo ho sempre saputo che non mi sarebbe bastata una vita “casa-lavoro”, ho sempre desiderato spendermi per qualcosa di grande e per gli altri. In questi anni di vita volontaria a Nomadelfia mi sono ritrovato a riscopri- re la mia storia, a fare pace con me stesso, e dopo ho cominciato un percorso di fede. Importantissimi sono stati i cammini dei giovani che mi hanno aiutato a far luce sulla mia esistenza aiutandomi a liberarmi dei pregiudizi e delle ideologie che mi guidavano. La consapevolezza di aver trovato un posto dove non ci si limita a sopravvivere, ma si vive per realizzare un progetto più grande e nobile di qualsiasi idea umana mi ha dato la spinta decisiva per fare domanda.
 
Quale è il sogno che porti nel cuore?
Il mio sogno è di poter vivere in una società dove ognuno aiuti l’altro gratuitamente e sia possibile realizzarsi come uomini, vivendo la vita pienamente nella semplicità della quotidianità.
 
Zeno, come ti ha chiamato il Signore?
Nomadelfia l’ho sempre portata nel cuore fin da bambino e ci son vari momenti importanti che mi hanno portato a questa scelta, però è stato durante un’esperienza in Guatemala che penso che il Signore mi abbia indicato attraverso vari incontri la fraternità in Nomadelfia come realizzazione di una personale vocazione. Lo scontrarmi con la povertà, anzi con la miseria nella quale vivono tantissime persone mi ha fatto riflettere su quanto fosse importante l’idea che le persone di Nomadelfia nel loro piccolo cercano di vivere, ossia creare una rete di relazioni basate sulla giustizia che si fonda sulle esigenze di ciascuna persona.
 
Pensi che Nomadelfia possa essere un segno profetico?
Penso che Nomadelfia sia una delle grandi possibilità che lo Spirito Santo ha fatto all’umanità per riportarla all’essenza della propria natura, cioè l’essere fratelli amati da un Padre che
vuole la nostra gioia. E quindi sì, penso proprio che Nomadelfia possa essere un segno di profezia per un mondo più giusto nel quale tutti ci riconosciamo fratelli.
 
Ti pesano gli inevitabili sacrifici della vita comunitaria?
Sinceramente la vita comunitaria non mi pesa moltissimo in quanto è la mia vita fin da quando sono nato, oltremodo adesso che è una mia scelta personale. Certamente ci sono momenti e momenti ma penso che la ricchezza che dà il vivere in comunità sia nettamente superiore alle difficoltà.
 
Sei felice?
Penso che felicità e tristezza facciano parte della nostra esistenza, in questo momento ho nel cuore una gioia che mi viene dalla certezza di essere in relazione con Gesù e dal sentirmi amato incondizionatamente nonostante i miei limiti e le mie povertà.