Omelia di Mons. Castellucci nella IV Domenica di Quaresima

Duomo di Mirandola - 22 marzo 2020

All’inizio della Messa

  Questa domenica è definita nella tradizione “domenica laetare, cioè della letizia”. Solo la liturgia può permettersi di invitare alla gioia in una quaresima così buia. Ma è un invito necessario, un lampo di cielo nell’ombra della nostra terra. Quando la giornata è nera e nuvolosa, è importante ricordasi che al di sopra delle nuvole il sole continua a splendere e prima o poi ritornerà.

  Un ringraziamento particolare al parroco don Fabio, ai suoi collaboratori, ai parrocchiani di Mirandola e a tutti coloro che sono collegati al Duomo di Mirandola attraverso il canale di TVqui, che ringraziamo ancora una volta. Continuiamo a pregare per i defunti e i loro familiari, per gli ammalati, per chi vive nell’ansia e nel panico, per i medici e gli operatori sanitari; per i volontari e la Protezione civile, per i presbiteri, i diaconi, gli operatori pastorali, le forze dell’ordine, le amministrazioni locali e statali. In questa celebrazione eucaristica pregheremo ancora per la rapida cessazione del contagio e per chi attraversa difficoltà nel lavoro, ricordando in particolare per le famiglie chiuse in casa che sperimentano situazioni non sempre facili.

 

Omelia – Es 16,1-4.6-7.10-13; Sal 22; Rom 5,1-2.5-8; Gv 9,1-41

“L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore”. Tra l’apparenza e il cuore c’è un abisso. Noi rischiamo di farci impressionare dalle apparenze e dimenticare il cuore delle cose. Corriamo il pericolo di essere travolti da ciò che salta agli occhi e trascurare il senso della realtà. La nostra civiltà è paragonata ad un palcoscenico, dove conta la capacità di recitare bene più che l’animo degli attori. Una civiltà dove esiste solo ciò che si vede, vale ciò che si può esibire. Il contrario di quella civiltà auspicata nel prezioso libretto Il piccolo Principe, un concentrato di saggezza pubblicato da Antoine de Saint-Exupéry nel 1943. In una delle scene più famose, la volpe scandisce al piccolo Principe: «non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi». È un’eco della scena biblica narrata nella prima lettura di oggi, ambientata dieci secoli prima di Cristo. Il profeta Samuele riceve da Dio l’incarico di ungere un nuovo re per il suo popolo. Dove andare a cercare un uomo adatto? Samuele poteva immaginare di doversi recare in una grande città, presso una famiglia di nobili, e invece Dio lo manda a Betlemme, un piccolo e sperduto villaggio, presso una famiglia di pastori. Samuele poteva pensare che il Signore avesse scelto un giovane forte e stimato; e infatti Iesse, il padre, fa sfilare davanti al profeta ad uno ad uno tutti i suoi figli, in ordine decrescente di importanza, a cominciare naturalmente dal più quotato. Ma con questo criterio – “l’uomo vede l’apparenza, il Signore vede il cuore” – Samuele li scarta ad uno ad uno. Sono sette i candidati possibili e nessuno di loro viene scelto. Al padre non viene neppure in mente l’ottavo, il più piccolo, un adolescente che sta guidando il gregge al pascolo. Non era tra i candidati: non aveva la postura da re, tutt’altro: era di bell’aspetto, ma ancora un ragazzino. “Alzati, ungilo: è lui!”, suggerisce Dio al profeta. E sarà, con le sue incoerenze, con i suoi slanci e le sue fragilità, il più importante dei re di Israele, il sovrano che ne segnerà così a fondo la storia, da definire addirittura un’epoca –l’epoca davidica appunto – come il periodo d’oro del popolo ebraico. Basti pensare che ancora mille anni dopo, ai tempi di Gesù, molti giudei aspettavano un Messia proveniente dalla stessa stirpe, un “nuovo Davide”, un sovrano capace di ricostruire l’unità nazionale. L’uomo vedeva l’apparenza, cioè un ragazzino esile capace a malapena di governare delle pecore; Dio vedeva il cuore, cioè un grande re capace di governare un intero popolo. Da questo racconto si misura bene la differenza tra gli occhi del Signore e i nostri: lui vede davvero l’essenziale, spesso invisibile per noi. Solo lui conosce il cuore, solo lui sa che cosa abbiamo dentro.

Gli occhi di Dio non si sono però limitati a guardare di lassù ciò accade tra gli uomini; gli occhi di Dio si sono trasferiti sulla terra, sono diventati gli occhi di Gesù. Il suo sguardo sui fratelli è lo sguardo stesso di Dio. Lui è venuto a portare la luce perché, come rivela egli stesso, “è” la luce del mondo. Solo attraverso i suoi occhi noi superiamo le apparenze e attingiamo al cuore; solo attraverso il suo sguardo noi vinciamo la tentazione del palcoscenico ed entriamo nel senso delle cose. In questi giorni di particolare apprensione, di dolore e sconcerto per molte persone, lo sguardo del Signore è la luce più grande che noi possiamo tenere accesa, per solcare le ombre della paura e le tenebre della sofferenza; per illuminare l’impegno di chi si trova in prima linea per curare la malattia, per assistere chi è preso dal panico, per mantenere e ravvivare la speranza della fede. Lasciamoci guidare dal suo sguardo, nell’incontro con il cieco nato.

I discepoli vedevano l’apparenza: “Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. Gesù vedeva il cuore: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Fermandosi all’apparenza, che sempre si trascina dietro anche i pregiudizi, i discepoli collegavano le malattie con un peccato da scontare; era una vecchia teoria tra gli ebrei che, nonostante fosse stata superata secoli prima già dal libro di Giobbe, resisteva nella mentalità popolare: la teoria diceva che le malattie sono conseguenza di una punizione divina per un peccato personale, oppure per una colpa che si trasmette attraverso tre o quattro generazioni. Così il malato era doppiamente sfortunato: per il morbo fisico e per la macchia morale, personale o familiare. L’apparenza era salva, i conti tornavano, la giustizia era assicurata. Solo che la giustizia di Dio non è come quella degli uomini. Lo sguardo di Gesù è molto più profondo: lui prima di tutto esclude il legame diretto tra malattia e peccato e poi, anziché fermarsi sulla causa, orienta verso l’effetto; riesce a vedere una grazia, ad aprire un varco di luce – lui che “è” la luce – anche nel buio di quell’uomo, che non vedeva se non tenebra. Il Signore non ci è venuto a spiegare la causa della sofferenza, che rimane nel suo nucleo un mistero, ma è venuto ad aprirci degli spiragli di luce nella sofferenza. Ha escluso la possibilità di leggere la malattia come castigo e flagello divino per chi ne è colpito – una interpretazione contraria al Vangelo, purtroppo diffusa ancora oggi – e ci ha offerto uno sguardo più profondo, rivolto non alle cause ma agli effetti. Gli occhi di Gesù hanno visto nel cieco nato non un peccatore – giudizio che ripeteranno i farisei: “sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?” – ma un fratello da salvare; loro continuavano a vedere l’apparenza, lui guardava il cuore.

La nostra esistenza terrena è rappresentata molto bene dalla condizione di quest’uomo cieco dalla nascita. Brancoliamo spesso nel buio e, quando ci sentiamo troppo sicuri di noi stessi, dobbiamo fare i conti con qualche crisi profonda, che mette in questione la nostra vista e ci rende consapevoli di avere uno sguardo corto, che non arriva al cuore. Le crisi si susseguono nella storia, anzi si accavallano: noi ne sentiamo le ondate, ma il mare è sempre mosso. Ogni tanto siamo impauriti dalla tenebra del terrorismo, divenuta crisi mondiale nel 2001 con l’attentato alle Torri Gemelle: ma nel mondo le guerre, le violenze e gli attentati contro la vita altrui sono continui. Ogni tanto siamo intimoriti dall’ombra della crisi economica, che ha avvolto l’intero pianeta a partire dal 2008: ma l’iniquità dell’ingiusta distribuzione delle risorse tra gli uomini dura da sempre e sembra crescere. Ogni tanto siamo scossi dagli allarmi per l’inquinamento e lo sfruttamento della terra: ma la crisi ecologica va avanti da parecchi decenni e non è certamente estranea all’attuale crisi sanitaria. Non dimentichiamo che le epidemie e le pandemie, a loro volta, segnano la storia e la geografia umana da sempre. Questo non è uno sguardo qualunquista; al contrario: Gesù ci incoraggia a collaborare all’opera di Dio, ciascuno secondo le proprie forze e le proprie competenze. Non lasciamoci coprire dalle tenebre del pessimismo: guardiamo con gli occhi di Gesù, che invita non a giudicare, a cercare spiegazioni, ma ad operare, a sporcarsi le mani come fa lui con il fango pur di guarire il cieco; e a ringraziare, perché tante persone stanno combattendo il male, sporcandosi le mani, rischiando e lottando contro le tenebre; anche grazie a loro, anche grazie a tutti quelli che oggi operano stando al loro posto, tornerà la luce.

E. Mons. Erio Castellucci
Arcivescovo di Modena-Nonantola
Amministratore Apostolico di Carpi