La quinta domenica di Quaresima ci porta presso la tomba di Lazzaro. La Settimana Santa è vicinissima e la liturgia ci fa salire l’ultimo gradino per avvicinarci alla glorificazione di Gesù, il Figlio dell’uomo innalzato sulla croce perché chi crede in Lui abbia la vita eterna.
Dalla lunga narrazione evangelica vorrei limitarmi a toccare tre punti, che ho sentito in profonda relazione con il dramma della pandemia che stiamo vivendo e che qui, nella nostra diocesi e provincia, raggiunge uno dei gradi massimi. Siamo proprio nel cuore della “zona rossa”.
1. «Signore, ecco, colui che tu ami è malato»
Partiamo dal messaggio che le due sorelle di Lazzaro fanno arrivare a Gesù: «colui che tu ami è malato» (Gv 11,3).
La figura di Lazzaro è importante nella narrazione evangelica e nel percorso liturgico della quaresima perché è il segno supremo della forza di risurrezione: la sua uscita dalla tomba è, infatti, l’anticipo della risurrezione, ossia l’ingresso del nostro corpo nel cielo quando la morte sarà sconfitta per sempre. Il ritorno alla terra di questo fraterno amico è l’ombra profetica del dono della vita immortale che la risurrezione di Gesù, seduto alla destra del Padre, porterà per il mondo intero.
Prima ancora di liberare l’amico dalla morte, infatti, egli dichiara a Marta: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (Gv 11,25s). Le sue parole si dimostreranno vere nell’impressionante descrizione dell’obbedienza del morto a Gesù: «Gesù gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: “Liberatelo e lasciatelo andare”» (Gv 11,43s).
La figura di Lazzaro però è importante anche per un altro motivo, che non è sfuggito all’Evangelista Giovanni. Si tratta dello speciale legame di amicizia di Gesù con lui. È questa amicizia che porta l’amico Gesù a un gesto che sarà gli fatale per il suo futuro.
Ascoltiamo alcune righe di quelle che seguono la nostra lunga narrazione. Alcuni giorni dopo, ossia sei giorni prima della Pasqua:
«Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali» (Gv 12,1s).
«Intanto una grande folla di Giudei venne a sapere che egli si trovava là e accorse, non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva risuscitato dai morti. I capi dei sacerdoti allora decisero di uccidere anche Lazzaro, perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù. […] I farisei allora dissero tra loro: “Vedete che non ottenete nulla? Ecco: il mondo è andato dietro a lui!”» (Gv 12, 9-11.19).
È a causa della risurrezione di Lazzaro che i Giudei affrettarono la decisione di uccidere Gesù. La vicenda di Lazzaro ci commuove profondamente anche per questo: non solo Gesù ha dato la vita all’amico Lazzaro, ma ha dato la sua vita per lui. Per lui ha accelerato la propria fine terrena. Il dono della vita all’amico, Gesù l’ha pagato con la sua morte in croce.
È perché proviene dall’amore – in concreto anche dall’amicizia per Lazzaro e per le sue sorelle – che la morte di Gesù può essere fonte di vita e di risurrezione. Spesso diciamo, troppo sbrigativamente, che Gesù è morto «per i nostri peccati». Una visione più profonda – quella che la liturgia ci propone, facendoci leggere il racconto giovanneo su Lazzaro – afferma che Gesù è morto per fedeltà all’amicizia con noi. Ha rischiato la vita per esserci amico.
È in forza di questo amore per noi che la croce è diventata risurrezione. Non ci ha salvato il dolore del Figlio di Dio, ma il suo amore e la sua amicizia schietta ed oblativa.
2. «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio»
Nel vangelo di oggi c’è un’altra grande affermazione, importante per noi in tempo di pandemia. Se la ascoltiamo come diretta a noi, essa ci darà una grande consolazione.
A noi che contiamo i morti in numeri catastrofici – nella liturgia di suffragio di ieri in questa cattedrale ne abbiamo ricordati, per il solo Comune di Carpi, già 25 – Gesù ripete: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato».
Non dobbiamo capire male le causa della pandemia: per quanto disastrosa, essa non è una punizione e non è una vendetta di Dio. Il suo scopo non è la morte. Si tratta piuttosto del risultato inatteso di uno sconvolgimento della realtà, che ci aiuta costringe a rivedere molte cose. La «gloria di Dio» che può venire da questa tragedia diventerà una realtà concreta per noi, se riusciremo davvero a cambiare e soprattutto a cambiarci.
L’omelia di Papa Francesco, venerdì sera a Piazza San Pietro, non può non averci toccato e, forse, persino scossi. Egli ci ha offerto una terribile analisi terribile, conturbante, ma vera. Ecco le sue parole.
«In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta, gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato».
Adesso questa malattia endemica e terribile che, a noi sembra erroneamente «soltanto per la morte», ci mette a nudo nelle nostre assurdità. Cito ancora Papa Francesco:
«La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto … tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici …, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità».
Da questa tremenda nudità può, però, sorgere la gloria di Dio. Il dilagare del coronavirus è una sfida che ci costringe a cambiamo quotidianità, stile di vita e modo di rapportarci tra noi. Il male sembra urlarci: è finito il tempo di quell’auto-centratura narcisista che ha logorato le strutture della realtà e della società. Abbiamo cominciato così a sprofondare, mentre la solidarietà tra i popoli, già in pericolosa crisi, si è avviata a naufragare alla grande. Per esempio, molti osservano che è venuta l’ora decisiva per la Comunità Europea: o si afferma nella solidarietà reale e generosa, o naufragherà miseramente nei flutti, in fondo torbidi, dei “buoni propositi” non impegnativi. Se dovesse cadere la realtà dell’Europa e la sua idea sorgiva, il frutto più promettente della tragedia della II guerra mondiale andrebbe irrimediabilmente perduto. Lo sviluppo, che ha messo fine a secoli di guerre intraeuropee e che ha orami settantacinque portato di pace, verrebbe interrotto senza che si possa prevedere un futuro.
Un silenzioso virus, a lunga incubazione, ci sta costringendo a intraprendere un cammino più serio, con maggiore rispetto per gli altri, per la società, per la terra e, in fondo, per noi stessi. Dice ancora Papa Francesco:
«Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli».
Se davvero questa prospettiva della fraternità prenderà piede, il nostro dolore di questi mesi non sarà stato inutile. Occorre impostare un più delicato rispetto per gli altri, che lasci perdere un troppo frequente e banale «indignarsi», quell’«anzitutto a me» – o ancor peggio quel fintamente generoso «anzitutto a noi», che – in realtà – è la perfetta e radicale antitesi al precetto prediletto di Gesù: «ama il prossimo tuo come te stesso».
Ma non ci siamo ancora accorti che il meccanismo del contagio svela che gli altri sono sempre il nostro prossimo? Avevamo pensato di poterli ignorare, sapendoli dei “lontani” e definendoli degli estranei, degli intrusi di cui si poteva fare volentieri a meno. Adesso scopriamo che ci erano, invece, terribilmente vicini.
Ora dopo ora, stiamo capendo che possiamo essere per gli altri un dono fonte di vita, ma anche un pericolo mortale nel senso più letterale del termine. E la stessa cosa possono essere gli altri per noi.
3. Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro
Al sepolcro del giovane amico, Gesù pianse due volte (Gv 11,43), ma riuscì nitidamente a gridare: «Lazzaro, vieni fuori!» (Gv 11,43). Gesù, anche oggi, non è lontano dal nostro dolore e dalla nostra paura, che – come ci hanno spiegato – è diventato un vero e proprio terrore. Gesù non ha abbandonato le nostre piazze vuote, le strade deserte e le stanze in isolamento; non si è allontanato dai cimiteri chiusi. Anche oggi ci grida a gran voce «Venite fuori» da quei sepolcri in cui siete andati a cacciarvi. Mi sembra ci prometta anche e ci esorti più o men con queste parole: Uscirete dal virus, ma dovete anche imparare a essere uomini con uno stile più autentico e naturale.
Speriamo di uscire presto dalla pandemia, ma speriamo anche che, nel nostro cuore e nella nostra intelligenza, si stratifichino davvero le molte cose che siamo imparando.
Aspetto anch’io con impazienza il vaccino contro covid-19, ma non dimentichiamo di lottare per gli altri vaccini – spirituali, morali, ecologici e sociali – di cui è evidente che abbiamo un estremo bisogno.
I giovani e le donne sono attaccati da questo virus in percentuali molto più basse, sono risultati meno in pericolo degli uomini maturi e degli anziani. Non potrebbe essere un segno che certe gerarchie hanno davvero fatto davvero il loro tempo? Non è più tempo del maschio forte, unico centro propulsore di tutto. Non è più tempo dell’adulto forte, che vuole provvedere a tutto e che riesce sempre, di dritto o di rovescio, a imporre il suo volere.
Chiediamo a Lazaro e alle sue due sorelle, che ci stiano vicino nell’ascoltare Gesù che oggi ci dice: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25). La tua malattia e il tuo dolore, caro fratello e amico, non sono per la morte, ma per la gloria di Dio e la vera gloria dell’uomo.