VI domenica del Tempo Ordinario, Anno B
Lev 13,1-2.45-46; Sal 31; 1 Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45
E. Rev.ma Monsignor Erio Castellucci
Arcivescovo di Modena-Nonantola e Vescovo di Carpi
Sembra quasi infastidito e contrariato, Gesù, nel fare il miracolo che abbiamo sentito proclamare: la guarigione di un lebbroso. Non è certo che la sua reazione alla supplica del lebbroso sia stata un moto di compassione. Questa è la versione scelta per la liturgia, ma esiste anche un’altra possibilità, un verbo alternativo, che pure è attestato nelle fonti, ed è che Gesù si sia arrabbiato. In questo caso anziché tradurre: “provò compassione” bisognerebbe tradurre: “fu preso dall’ira”. In ogni caso, anche se Gesù si fosse arrabbiato, questa reazione forte non sarebbe contro il malato ma contro la sua segregazione, contro i pregiudizi che circondavano i lebbrosi. Ne abbiamo avuto un’idea nella prima lettura: i lebbrosi dovevano addirittura segnalare la loro presenza per evitare contatti con le persone sane, erano espulsi dalla comunità religiosa e civile, vivevano nei ghetti loro riservati perché, secondo quella mentalità, erano ritenuti non solo contagiosi ma anche peccatori, o loro o i loro genitori, come tutti i malati: ma forse addirittura più degli altri malati, dato il ribrezzo che la lebbra procurava. Dei veri e propri scarti, direbbe Papa Francesco. Comunque, che Gesù abbia reagito con la compassione o con la rabbia, di fatto, una volta guarito il lebbroso – dice l’evangelista Marco – ammonendolo severamente, lo cacciò via subito. Insomma, sembra un po’ maldisposto, un miracolo controvoglia compiuto quasi di soppiatto, che poi non doveva essere propagandato. Naturalmente il lebbroso fece il contrario e si mise a proclamare a divulgare il fatto e rese così la vita a Gesù più complicata; in altre parole, gli ridusse a zero la privacy. Dice Marco che il Maestro “non poteva più entrare pubblicamente” in una città perché veniva assediato dalla gente.
Eppure, anche se disobbedendo a Gesù, che non è una cosa buona, il lebbroso fa una cosa buona per noi: diventa modello dell’evangelizzazione in anticipo; qui siamo infatti al capitolo primo del vangelo di Marco e Gesù manderà i discepoli solo al capitolo 16. Visto l’effetto di questo divieto, si potrebbe suggerire oggi ai liturgisti di cambiare la formula missionaria finale alla messa. Invece di dire: “andate, annunciate a tutti”, invito che spesso cade nel vuoto, si potrebbe usare la formula di Gesù e dire a fine messa: “guardate di non dire niente a nessuno”, per vedere se l’effetto è quello del lebbroso.
Perché Gesù però non vuole che il suo miracolo sia raccontato in giro? Perché teme di essere scambiato per un mago, per un Messia guaritore. Tutti, infatti, lo cercano per questo, per ricevere un beneficio. Lui invece non vuole semplicemente toccare il corpo, ma vuole toccare il cuore; non vuole toccare solo la pelle malata del lebbroso, ma vuole toccargli il cuore malato. La strada di Gesù non passa per la facile gloria dei successi, ma per la faticosa gioia del dono di sé, della condivisione: è questo il tocco che arriva al cuore e lo cambia.
Ma perché il lebbroso disobbedisce così platealmente? Spezzo un’altra lancia a suo favore. Poteva mai tenere per sé una gioia così grande? Di colpo gli viene tolta quella sofferenza indicibile che si chiama isolamento: si sente istantaneamente purificato dalla malattia, assolto dal peccato, reinserito nella comunità. Uno guarito così integralmente non può fare a meno di parlare di chi l’ha guarito. Quando invece uno non parla del Signore, non lo testimonia, non evangelizza, è perché non si è sentito guarito. Se come cristiani ci illudiamo di essere sani, integri, perfetti, al massimo diffondiamo delle dottrine. È quando ci sappiamo lebbrosi, guariti, che annunciamo con gioia il Vangelo di Gesù. Sta a noi proseguire i suoi miracoli; lui ce li offre come segni, non come soluzione dei problemi. Gesù, in un certo senso, i miracoli li comincia, dobbiamo completarli noi, perché, se avesse voluto fare il miracolo completo, avrebbe dovuto guarire tutti i lebbrosi, non solo quello, e di tutti i paesi, non solo dei villaggi della Galilea, e di tutte le epoche, non solo della sua. I miracoli non sono la soluzione magica dei problemi, sono l’inizio di uno stile che dobbiamo proseguire noi, lasciandoci toccare il cuore da lui, per poi testimoniare a tutti la gioia di questo contatto. Questo è il miracolo del lebbroso.
Caro Stefano, il tuo diaconato non è una prestazione d’opera umanitaria. È l’annuncio di una guarigione che hai ricevuto, che ti ha cambiato profondamente la vita, che ti fa sentire la gioia di testimoniare. La missione è un travaso di gioia, altrimenti diventa una comunicazione di noia. Prendi esempio dal lebbroso non nel disobbedire (mi raccomando), ma nell’evangelizzare, nel testimoniare con gioia di essere stato toccato da Gesù nel cuore. Nell’intervista a Notizie hai detto che ti appassionava da giovane l’idea di lavorare nei campi dell’economia e della finanza e per questo hai studiato queste discipline all’università. Poi le hai praticate nella professione per alcuni anni. Ad un certo punto, così hai aggiunto, “ho toccato con mano in un istante l’amore del Signore”. Hai “toccato”: ecco caro Stefano, questo è il contatto che ti ha cambiato il cuore, che ti ha cambiato la vita. Sia il tuo fuoco. Il diacono, come segno di Cristo servo, coltiva nelle comunità cristiane il contatto di Gesù con i poveri, soprattutto con quelli che nessuno vorrebbe toccare. La Beata Vergine di Lourdes, di cui oggi facciamo memoria, ti sia sempre accanto. perché il tuo ministero sia l’annuncio gioioso del Maestro che tocca i cuori.