Omelia nella celebrazione della Solennità di Cristo Re (anno C) per l’ordinazione presbiterale di don Francesco Cavazzuti
Sabato 19 novembre 2022
(2 Sam 5,1-3; Sal 121; Col 1,12-20; Lc 23,35-43)
“Salva te stesso”: è un ritornello lanciato per tre volte al re dei giudei, al messia crocifisso. Gridato prima dai capi del popolo e da soldati per deriderlo, poi da un malfattore in croce per insultarlo, l’invito all’auto-salvezza è per Gesù l’eco delle tre tentazioni diaboliche vissute nel deserto di Giuda, all’inizio del suo ministero. Sulla croce, come nel deserto, Gesù è sfidato nella sua identità. Nel deserto il diavolo gli aveva detto: “Se tu sei il Figlio di Dio trasforma le pietre in pane, se ti prostri dinanzi a me, tutto sarà tuo, se tu sei il Figlio di Dio, buttati giù dal pinnacolo e gli angeli ti soccorreranno”. Sulla croce risuona la stessa sfida: “Se sei il Cristo, l’eletto, se sei il re dei giudei, salva te stesso”. È questa l’ultima tentazione di Gesù, uguale alla prima: l’auto-salvezza.
Il titolo di “re”, inciso sulla scritta sopra la croce, concentra tutte le attese riposte su quell’uomo. Il re è simbolo dell’autorità, il sovrano dispone, comanda, ordina. Tra i titoli antichi dei re e degli imperatori compare anche quello di “salvatore”. Ma troppo spesso, allora come oggi, chi detiene il potere finisce per rimanerne inebriato e si sforza di salvare se stesso, lasciando alla deriva coloro che avrebbe dovuto servire: specialmente i poveri, gli svantaggiati, i residui della società. Sotto il dominio romano finivano sulla croce non i potenti e i ricchi, ma i ladri, i malfattori e i miseri, appartenenti alla sottospecie degli schiavi. Cosa ci fa allora un re sulla croce? È il più grande controsenso che si possa immaginare: ed è motivo di scherno. Se poteva esserci una smentita sonora delle pretese messianiche di Gesù, eccola lì, concentrata su quella scritta: “costui è il re dei giudei”.
Ma Gesù resiste alla tentazione, non scende dalla croce, evita la comoda via dell’auto-salvezza. Il titolo di “re”, del resto, gli è sempre andato stretto, anzi storto, fin da quando i Magi lo avevano indicato come “re dei giudei che è nato” alla persona più sbagliata che potessero incontrare, il “re” Erode, determinando involontariamente una feroce persecuzione (cf. Mt 2,2-3); e poi quando Gesù, dopo avere moltiplicato i pani, riscosse un successo tale che la gente voleva farlo re: e lui si ritirò sulla montagna, in solitudine (cf. Gv 6,15); fino ai drammatici dialoghi con Pilato e alla parodia inscenata dai soldati, con la corona di spine, il mantello di porpora (cf. Gv 19,3), la scritta sulla croce. L’ombra di una sovranità inquietante avvolge Gesù fin dall’infanzia; un’ombra sotto la quale lui non soccombe, perché non è venuto per auto-salvarsi; è venuto per introdurre nel mondo una scommessa, quella del dono, dell’offerta di sé, come via per salvare gli altri e se stessi. In un certo senso il malfattore arrogante era andato più vicino alla verità rispetto ai capi e ai soldati, perché dopo il “salva te stesso”, aveva aggiunto: “e anche noi”. Però aveva sbagliato l’ordine delle frasi, perché la sequenza giusta è: “salva noi e anche te stesso”. È il dono di me stesso agli altri che salva anche me; la mia salvezza passa attraverso gli altri; se parto dalla cura per me, rimango avvolto in me stesso.
Lo comprende bene il secondo malfattore, il cui tono è totalmente diverso: “Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno”. Non nega, questo compagno di sventura, che Gesù sia re – anzi, parla del suo “regno” – ma sa che in questo mondo nuovo non si entra sfidando, bensì implorando; non si entra dalla porta della superbia, ma da quella dell’umiltà; si entra quasi in punta di piedi, chiamando il Signore per nome e non deridendolo con titoli altisonanti: “Gesù, ricordati di me”… Quest’uomo invoca una relazione familiare, semplice, diretta, amichevole. E la risposta di Gesù ne riprende il tono: “oggi con me sarai nel paradiso”; dove è la relazione (“con me”) a definire il tempo (“oggi”) e lo spazio (“nel paradiso”). Essere “con” Gesù è il tempo e il luogo della salvezza. E non solo dopo la morte, ma già ora: questo malfattore è “con” Gesù sulla croce, e non “contro” Gesù, come gli altri; e per questo cala su di lui una parola di salvezza, un’offerta di relazione, che già da quel momento cambia la sua esistenza: non lo salva dalla croce, ma lo salva nella croce. Il malfattore umile è l’ultimo fratello in ordine di tempo salvato dal Signore, ma è anche il primo fratello ad entrare nel suo regno: “oggi”. In quello che noi chiamiamo “il buon ladrone” si realizza la parola pronunciata un giorno da Gesù per smascherare gli orgogliosi e i salvatori di se stessi: “i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21,31); “gli ultimi saranno primi e i primi ultimi” (Mt 20,16). Le classifiche di Gesù seguono criteri decisamente diversi dai nostri, criteri che ci spiazzano, che richiedono conversione, umiltà, immersione nel mistero della croce che salva.
Caro don Francesco, non aggiungo molte parole a quelle del Vangelo e a quelle già pronunciate dal Rettore. So che la tua storia e sensibilità sono in sintonia con questo sovrano crocifisso, nel cui regno i poveri e gli umili, non i ricchi e i superbi, i miti e gli oppressi, non gli arroganti e i violenti, sono al primo posto. Mantieni e porta nel tuo ministero questa strana classifica evangelica così indigesta a chi ragiona secondo la logica mondana. Non troverai molto consenso e non tarderanno ad arrivare le critiche – giusto per incoraggiarti – ma troverai una famiglia umile e semplice che ti aprirà le braccia: quegli ultimi, che sono i primi nella classifica di Dio. E farai sorridere dal cielo il tuo omonimo zio, l’indimenticabile don Francesco, grande amico del Signore e dei fratelli abbandonati ai bordi del sentiero. La tua Chiesa ti accompagna e rende grazie al Signore per te.