Investitura Coristi Cattedrale
–At 5,12-16; Sal 117(118); Ap 1,9-11a.12-13.17-19; Gv 20,19-31–
“Erano chiuse le porte”: erano chiuse la sera di Pasqua e otto giorni dopo. Quelle porte erano chiuse per timore dei Giudei; erano chiuse perché i discepoli vivevano ancora l’incertezza e la paura di fronte agli eventi così misteriosi e inquietanti della Pasqua, di fronte alla morte di Gesù che aveva fatto crollare le loro speranze, di fronte alle prime voci diffuse nei giorni successivi e alle quali non si sapeva se credere o non credere… e non si riusciva a comprendere che cosa fosse successo, perché si parlava anche di qualche visione.
Non stupisce che le porte fossero chiuse la sera di Pasqua – Gesù non è ancora apparso – ma che lo fossero ancora l’ottava di Pasqua, perché Gesù era già apparso. Ma noi sappiamo che fino alla Pentecoste, pur apparendo, Gesù non si imponeva, lasciando lo spazio della fede. I discepoli infatti stentavano a riconoscerlo; quasi incredibile che chi ha vissuto anni e anni con lui, chi lo ha sentito parlare, chi ha mangiato con lui, non riesca a riconoscerlo. Eppure nei racconti delle apparizioni di Gesù risorto, c’è questo dato quasi costante: i loro occhi erano chiusi, avevano paura, avevano timore. I racconti sono pieni di queste osservazioni, che hanno il sapore del dubbio; certo, essendo un corpo trasfigurato, non è facilmente riconoscibile: ma non è solo questo il motivo dei dubbi dei discepoli: è che Gesù vuole accompagnare la fede, non estinguerla con una visione. Per questo Gesù non si impone ma si affianca, si propone, si presenta: per lasciare uno spazio alla fede.
In questo senso l’apparizione ai Dieci la sera di Pasqua e l’apparizione a Tommaso otto giorni dopo, non sono molto diverse dalle nostre esperienze di fede. Anche in quei casi Gesù ha lasciato spazio, non ha cancellato la ricerca, il dubbio, i tentennamenti; proprio come accade per la nostra fede. Gesù anzi ritiene la nostra fede addirittura più beata di quella di Tommaso, se l’incontro con l’apostolo si conclude con questa beatitudine che ci riguarda: “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”.
“Quelli che non hanno visto siamo noi… però, se crediamo, qualcosa abbiamo visto: non si crede “alla cieca”, come se la fede fosse un “salto nel vuoto”. La fede è certamente l’atto di aprirsi ad una luce più grande di quella percepibile dalla nostra mente, ma non è un salto nel vuoto. Tutti noi abbiamo bisogno di vedere qualcosa, anzi di vedere Qualcuno.
Che cosa mostra Gesù? Non mostra un miracolo, non utilizza l’apparizione per far sfoggio dei suoi super-poteri: allora avrebbe cancellato lo spazio della fede. Gesù mostra delle ferite, mostra ciò che forse avrebbe dovuto nascondere, secondo il nostro punto di vista, perché le sue piaghe erano i segni della vittoria del male sul bene, della violenza sulla bontà, erano la prova del fallimento di Gesù. Ma la sua misericordia consiste proprio in questo: lui non cancella le ferite ma le riempie di luce. Come disse un grande vescovo del nostro tempo, don Tonino Bello: le ferite di Gesù sono diventate feritoie attraverso cui i discepoli hanno visto la luce.
Le ferite della croce non scompaiono magicamente all’improvviso; Gesù le porta con sé ma sono ormai il segno che è più grande l’amore della morte. Il Signore non ci libera dalla morte, ma ci libera nella morte; ci lascia passare attraverso queste ferite (i segni di morte, le sofferenze) ma le riempie di luce. Con la sua risurrezione mostra che le ferite non sono l’ultima parola, che la morte non è l’ultima parola. E’ attraverso le ferite che il Signore ci salva, quelle sono il segno del suo amore profondo, di come lui non si sia tirato indietro – come hanno fatto i suoi discepoli per paura – davanti alla morte, ma abbia condiviso tutto: le ferite lo rendono più credibile, perché anche lui ha passato quello che noi passiamo, anche lui ha vissuto le fatiche che noi attraversiamo. E proprio il fatto di risorgere con quelle ferite significa che anche per noi le ferite della vita non sono automaticamente dei fallimenti, ma possono diventare feritoie di luce, occasioni di maggiore umiltà, momenti nei quali comprendiamo meglio le ferite degli altri, addirittura motivi per aprirci di più al Signore, per renderci conto che da soli non possiamo fare nulla.
Le ferite di cui è pieno il mondo di oggi sono tante, non solo la pandemia e la guerra; la buona notizia è che possono diventare feritoie di luce, se ciascuno di noi si impegna, come stiamo cercando di fare tutti, a mettere in questi solchi terreni così compromessi dei segni di risurrezione, a testimoniare che il perdono è più grande dell’offesa, che l’amore è più forte di ogni violenza; a partire dalle nostre relazioni immediate, nei nostri luoghi quotidiani, nella nostra vita di ogni giorno. Anche qui, anzi proprio a partire di qui, le ferite possono diventare feritoie. Chiediamo al Signore di fare l’esperienza di Tommaso: credere senza cercare di schivare le ferite, ma toccarle, guardarle come occasioni di compassione e di luce.