Duomo di Modena e Duomo di Carpi

Omelia nella Messa crismale

27.03.2024

Is 61,1-3,6,8b-9; Sal 88; Ap 1,5-8; Lc 4,16-21

“Gli occhi di tutti erano fissi su di lui”. Luca è sensibile agli occhi: spesso nota gli sguardi, nelle loro sfumature; come esperto regista crea i primi piani, punta la lente su qualche particolare o adotta un angolo visuale che attira l’interesse dei lettori. In questa scena, come se posizionasse la telecamera dentro la sinagoga, dopo un giro d’orizzonte sui volti dei presenti in attesa delle parole di Gesù, ferma l’obiettivo su di lui e lo concentra sulle sue labbra. Gesù rompe il silenzio e commenta telegraficamente il passo di Isaia appena letto: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”.

Una risposta che, invece di spostare l’attenzione sul rotolo di Isaia, la concentra ancor più su Gesù, provocando poi meraviglia in alcuni, domande in altri (“non è il figlio di Giuseppe?”) e infine sdegno, rabbia e violenza. Non c’è dubbio: in questa scena Gesù è il punto focale; dichiarando “compiuta” la Scrittura profetica – i suoi concittadini lo capiscono bene – si riferisce a se stesso. Ma in che senso si sono “compiute” le profezie? Non si è ancora svelato, non ha ancora predicato né compiuto miracoli, non ha neppure radunato dei discepoli, e dovrà passare ancora del tempo prima che venga ucciso e risorga. Insomma, ha appena messo i piedi fuori casa e subito dichiara “compiuta” la Scrittura in lui…

In realtà Gesù parla di se stesso, ma in se stesso mette noi: è questo che i suoi concittadini non capiscono. Le profezie si compiono in lui in quanto consacrato e mandato per i poveri, per i prigionieri e i ciechi, per gli oppressi, per proclamare il giubileo, cioè per tutti noi. In lui ci siamo noi: il suo “io” non è rinchiuso semplicemente nel perimetro del suo corpo fisico; il suo “io” è il “noi” che in lui si concentra. In lui, Verbo fatto carne, si alleano Dio e gli uomini, in lui diventano consanguinei.

Per questo nei Vangeli Gesù è l’unico a potersi permettere di dire continuamente “io”, a definirsi e mettersi al centro, senza essere autoreferenziale. Passeggiando qua e là nei quattro Vangeli, troviamo tanti “io” pronunciati da Gesù: “io sono mite e umile di cuore”, “io sono il buon Pastore”, “io sono la porta delle pecore”. “io sono il pane della vita”, “io sono il pane vivo disceso dal cielo”, “io sono la luce del mondo”, “io sono la risurrezione e la vita”, “io sono la via, la verità e la vita”. E nel Vangelo di Giovanni, più volte Gesù riecheggia l’“Io sono” di Dio a Mosè”. Una delle sentenze più solenni e più scandalose, in questo senso, è: “prima che Abramo fosse, io sono”.

Sarebbero pretese esorbitanti, se lui stesso, tra il suo “io” e “noi”, non avesse gettato questo ponte: “dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20) e: “io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Il ponte è la risurrezione: il suo “io”, passato attraverso l’infamia della croce, ospita tutti i credenti in lui. E questo “io”, che diventa “noi”, si chiama “Chiesa”. L’aveva compreso Saulo, quando si sentì dire dal Signore: “io sono Gesù che tu perseguiti”. Saulo perseguitava la comunità, ma Gesù si presenta dicendosi perseguitato lui stesso. La Chiesa non è solo la somma dei battezzati; la Chiesa è il corpo di Cristo che, morto e risorto, continua ad ospitare le sue membra, noi. Se la nostra prospettiva ecclesiale non prendesse le mosse da questo mistero, l’appartenenza alla Chiesa si ridurrebbe all’iscrizione ad un’associazione o ad un club qualsiasi.

Non è solo una questione accademica, ma anche pastorale. Chi pensa che la Chiesa sia la semplice somma dei suoi aderenti, punta sul proprio “io”, cade spesso nelle logiche di minoranza-maggioranza e si appassiona per le proprie idee, cercando di farle prevalere e mettendo magari in cattiva luce chi non la pensa allo stesso modo. Ma solo Gesù può permettersi di centrare ogni cosa sul proprio “io”, perché è un “io” ecclesiale. Chiunque altro facesse perno sul proprio “io”, nella Chiesa, ferirebbe la comunione, cioè il corpo di Cristo. Un diacono, un prete o un vescovo, che si impegnasse per gli altri anche con dedizione e professionalità, ma che ferisse la comunione, farebbe come Penelope: di giorno tesse la tela della vita ecclesiale e di notte la disfa.

Il Signore ci ha dato un criterio per custodire e consolidare la comunione nel suo corpo: assumere in noi la dinamica missionaria del suo “io”: cioè dedicarci ai poveri, ai prigionieri, ai ciechi, agli oppressi, a predicare l’anno di grazia del Signore. La comunione, per radicarsi in Cristo, ha bisogno di missione. Siamo tanto più uniti tra di noi, quanto più ci appassioniamo ai veri problemi della gente: alla loro povertà interiore ed esteriore, alla prigionia del corpo e dell’anima, alla cecità della vista e del cuore, alle oppressioni e alle miserie. Il corpo di Cristo necessita di ossigeno: l’aria inquinata e avvelenata, di chi attacca e offende, non può che danneggiarlo.

Il Signore ci conceda di vivere la letizia di essere Chiesa, di lasciarci convertire dai poveri, di sentirci accorpati al suo “io”, pieni di riconoscenza per il grande dono della fede e del ministero. Meno malumori e più gioia: se saremo grati per il dono della fede e del ministero, vivremo contenti noi e porteremo consolazione ai fratelli.

+ Erio Castellucci