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Cattedrale di Carpi – Sabato 21 settembre 2024
(XXV domenica del T.O. – Sap 2,12.17.29; Sal 53; Giac 3,16-4,3; Mc 0,30-37)
“Non capivano queste parole”. Non bastava ai discepoli la garanzia che sarebbe risorto dopo tre giorni. Del resto, Marco, pochi versetti prima, aveva annotato un particolare: a Pietro, Giacomo e Giovanni, subito dopo la Trasfigurazione, Gesù fece un cenno alla sua prossima risurrezione, ma essi si chiesero “che cosa volesse dire risorgere dai morti” (9,10). È troppo lontana dall’orizzonte religioso dei discepoli l’idea di un Messia che doveva essere consegnato nelle mani degli uomini e ucciso. Il Figlio dell’uomo, la figura messianica con cui Gesù si identifica, per gli ebrei doveva venire “sulle nubi del cielo” (Dan 7,13) per riscattarli dall’oppressione; non poteva certo soccombere come un fallito, un vinto. Doveva essere un sovrano, non un servo, un liberatore, non un condannato. Per questo “non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo”.
Però lungo la via non stanno in silenzio: semplicemente lasciano cadere le strane parole di Gesù e cambiano discorso; si concentrano su temi più attraenti, più concreti, su ciò che li appassiona davvero: “chi è più grande tra di noi?”. Questo sì che è un argomento interessante! Altro che umiliazione e abbassamento: a loro interessano la gloria e il successo. Notiamo che non discutono semplicemente su “chi è grande”, non fanno filosofia sul concetto di grandezza in astratto, ma discutono su “chi è più grande”: competono, si mettono in gara tra loro. Il contrasto rilevato da Marco tra la passione pasquale di Gesù e la passione agonistica dei discepoli non poteva essere più incisivo. È la misura della distanza tra lo stile di Dio e quello degli uomini. Lui, in Cristo, si fa perdente, scende tutti i gradini della nostra bassezza e si consegna nelle nostre mani; noi invece vogliamo salire i gradini del podio; e lo accogliamo, sì, nelle nostre mani, ma per eliminarlo dai viventi. Un Dio così fragile non ci serve.
La tensione al podio, in realtà, Gesù non la mortifica: “chi vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. Lui valorizza la naturale spinta a primeggiare, ma ne capovolge il senso: il primo è l’ultimo, il padrone è il “diacono”, cioè colui che serve alla tavola. Il podio è rovesciato: chi vuole essere “più grande”, deve farsi più piccolo, servo, ministro (parola che viene da minus, meno). Per questo, a sorpresa, Gesù mette in scena un bambino. Non si limita a richiamare l’immagine del bambino, ma ne prende uno in carne e ossa, lo abbraccia e si identifica con lui: chi accoglie il bambino, piccolo e indifeso, accoglie lui e chi accoglie lui accoglie il Padre. Tutta la potenza divina del Padre e del Figlio dell’uomo scende nella debolezza del bambino. La collocazione scelta da Gesù per il bambino – “lo pose in mezzo a loro” – è in antitesi con il ruolo sociale che ricopriva, praticamente nullo: il bimbo, l’emarginato, è posto al centro della scena, diventa il maestro. Gesù così inaugura il magistero del bambino. La scena crea un paradosso incredibile: i discepoli, che volevano emergere, Gesù li invita a farsi meno, a farsi diaconi, ministri; il bambino, che è meno di tutti, Gesù lo pone in mezzo come maestro (parola che viene da magis, più). Il ministero dei discepoli si mette in ascolto del magistero del bambino, immagine di Gesù stesso.
Caro Stefano, non ho ancora parlato di te, ma il Vangelo è così provocatorio che mi ha preso la mano. In ogni caso, so bene che non ti offendi, perché oggi sei scelto e consacrato proprio per spendere le tue energie, il tempo e le capacità nell’annuncio del Vangelo. Oggi, insieme a noi, ti vai a sistemare tra i Dodici, prendi posto in quel ministero che fa cerchio attorno al magistero del bambino. Mi permetto solo di chiederti una cosa: cerca sempre di accogliere i piccoli e, in loro, l’unico grande Maestro per il quale dai la vita. Il magistero del bambino è infallibile. Quale bimbo vuole le guerre, come invece purtroppo l’adulto, per sentirsi vincitore? Il bambino desidera la pace. Quale bimbo vuole le ingiustizie e gli abusi, come invece purtroppo l’adulto, per sentirsi ricco e potente? Il bambino desidera la giustizia. E quale bimbo vuole depredare la natura e inquinarla, o eliminare un fratellino o una sorellina spuntati nel grembo della mamma, come invece l’adulto, per evitare il sacrificio di custodire il creato e le creature? I bambini sono maestri di umanità, perché i loro occhi, che guardano dal basso, si immaginano il mondo come una casa accogliente, con tanti fratellini e familiari, con gli animali e un giardino fiorito.
Ecco Stefano, tu che sei particolarmente sensibile alle fragilità morali, affettive, esistenziali e spirituali dei ragazzi e dei giovani, prenditi cura di questi piccoli e, in loro, di Gesù. Non dimenticare mai che oggi assumi un “ministero”, ti fai “meno”, per metterti all’altezza dei piccoli. Certo, sarai chiamato “don”: un titolo ormai solo distintivo, che per fortuna ha perso l’originaria derivazione nobile da dominus, “signore”. Qualcuno ti chiamerà “padre”, che è certamente un titolo più ricco: e pazienza se Gesù ha detto ai discepoli di non farsi chiamare “padri” (cf. Mt 23,9): erano altri tempi. Può darsi che un giorno ti venga elargito il titolo di “monsignore”, ma adesso papa Francesco ne ha reso più arduo il conseguimento; e poi – rimanga tra noi – spero che quando tu sarai anziano i titoli onorifici ecclesiastici siano solo un ricordo. Non ti auguro poi, perché so che sei una brava persona, di sentirti un giorno chiamare “eccellenza”. Resta “fratello”, specialmente dei piccoli. La nostra posizione di ministri della Chiesa non è al centro, ma attorno, come discepoli in cerchio, nell’ascolto accogliente di quell’unico Maestro che sta “in mezzo” alla comunità, che si identifica col bambino, e che merita davvero il regalo, grato e gioioso, di questa nostra unica vita che è suo dono.
+ Erio Castellucci