Carpi, Cattedrale

Omelia Pasqua – Messa del giorno

 

 

(At 10,34a.37-43   Sal 117   Col 3,1-4 opp. 1Cor 5,6b-8   Gv 20,1-9)

La scena della domenica mattina, il primo giorno della settimana, all’alba, è dominata dai segni di morte: sembra che la morte abbia vinto! Nel breve racconto che è stato appena proclamato, per ben sette volte è presente il sepolcro, l’episodio è intessuto sul sepolcro, con i teli e il sudario rimasti nel sepolcro (altri segni di morte). La domenica mattina dunque sembra dominata dalla morte. Però, man mano che il giorno avanza, questi segni di morte dimostreranno di essere segni del passato: il presente è dominato dalla vita e la sera di quello stesso giorno – secondo il vangelo di Giovanni – Gesù si mostrerà vivo, trasfigurato, passando attraverso la porta chiusa del cenacolo. Mostrerà le piaghe.

La domenica mattina: il sepolcro vuoto, i segni della morte; la domenica sera: il corpo trasfigurato, il segno della vita. Qualcosa rimane però nel sepolcro. Quando noi cristiani ci mettiamo di fronte al grande mistero della morte, non lo facciamo in maniera superficiale, disinvolta, perché qualcosa rimane nel sepolcro.

Rimane il sudario, un piccolo telo piuttosto robusto che si poneva sul capo come segno di rispetto, annodato in modo da tenere composta la faccia, perché la bocca rimanesse chiusa, per rispetto alla salma. E rimangono i teli, in genere un unico grande lenzuolo che copriva davanti e dietro il corpo del defunto – quasi lo avvolgeva – e teneva compressi gli aromi con i quali era stato imbalsamato. Questi segni non avvolgono più il corpo di Gesù – non ce ne è più bisogno – però rimangono nel sepolcro.

Che cosa esce, invece, dal sepolcro? Esce un corpo trasfigurato, che tuttavia porta delle ferite: “Guardate le mie mani, guardate i miei piedi!”. Le ferite non rimangono nel sepolcro, le ferite escono dal sepolcro, rimangono incise nel corpo e sono trasfigurate! Noi nel sepolcro lasceremo le nostre maschere, cioè i nostri sudari, i nostri pregiudizi, le nostre superficialità, cioè i nostri teli. Lasceremo tutto ciò da cui siamo stati avvolti agli occhi degli uomini: la fama, forse anche le chiacchiere e le critiche che ci siamo presi ingiustamente… tutto questo rimarrà nel sepolcro: sono i segni di morte.

Che cosa uscirà dal sepolcro? Il nostro corpo trasfigurato, cioè i nostri legami, le relazioni autentiche che abbiamo vissuto, l’amore che abbiamo donato e ricevuto e che sarà portato a compimento. Il segno sono le ferite. Le ferite usciranno dal sepolcro con noi. Le ferite di Gesù non sono semplicemente i segni di una violenza e di un odio che lo ha schiacciato e letteralmente inchiodato, ma sono anche e soprattutto il segno di un affidamento al Padre e di una condivisione con i fratelli che sono arrivati fino in fondo. Gesù non è scappato davanti alla croce, si è consegnato completamente al Padre. Gesù non è fuggito davanti alla croce, ha voluto condividere ogni croce umana. Sono dunque ferite di salvezza, sono ferite risanate, sono ferite redente. Queste le porteremo dietro. Queste saranno anzi la nostra carta di identità presso il Signore: Quanto hai amato? Quanto sei stato amato? Quanto sei riuscito a trasformare le fatiche, le sofferenze, e offese in occasioni di grazia? Quanto ti sei chinato sulle ferite dei fratelli, “quando avevo fame, avevo sete, ero nudo, ero carcerato, ero straniero, ero malato”… e ho avuto bisogno di te? Saranno ferite trasfigurate.

Questa logica, che sostiene la nostra esistenza di credenti  – passare attraverso la morte per lasciare qua le superficialità e le maschere e portare dietro le ferite risanate – regge anche questa vita presente. La grande e drammatica esperienza che stiamo vivendo da oltre un anno a questa parte, è come un lungo sabato santo, come una dimora prolungata nel sepolcro. Noi però sappiamo che questo masso sta rotolando, che il sepolcro non è l’ultima parola; e vogliamo impegnarci perché rimangano nel sepolcro, cioè siano sotterrate insieme alla pandemia, le nostre superficialità, le nostre maschere, quelle passioni inutili che nelle situazioni “normali” di solito regolano la vita sociale – e purtroppo anche ecclesiale – e quelle polemiche, quei pregiudizi, quei risentimenti che spesso fanno parte della nostra vita quotidiana.

Ci stiamo rendendo conto, stando dentro a questo sepolcro, di ciò che davvero conta. Vogliamo lasciare al passato i lini e il sudario, la superficialità e le maschere, e portare fuori dal sepolcro le ferite. Ne abbiamo tante: alcuni sono stati colpiti direttamente anche nelle loro case, fra i loro cari, in loro stessi, nel loro corpo; tutti siamo provati dalla paura, da un logoramento che continua, da tante crisi: economica, educativa, sociale. Queste ferite, se noi ci affidiamo al Signore e le condividiamo con i fratelli, si possono trasfigurare e possono diventare occasioni per una misericordia più grande tra di noi.

Questi sono i segni del Risorto già ora. Adesso il Risorto va testimoniato, non semplicemente dicendo: “è risorto!” – questo è fondamentale – ma creando nelle nostre relazioni dei bagliori di vita, dei momenti di misericordia, delle tenerezze che ora non ci possiamo esprimere, delle attenzioni che sono piccole luci accese nei rapporti tra di noi: tutto questo deve uscire dal sepolcro.

Chiediamo al Signore che la sua Pasqua allora significhi per noi già ora un passaggio dal sepolcro alla vita trasfigurata, dai segni di morte alla vittoria della sua vita, la vita eterna.

+ Erio Castellucci