Omelie del vescovo Erio nella solennità di Natale

Omelia nella Messa della Notte di Natale
Sabato 24 dicembre 2022, ore 23.45
Modena, Cattedrale
 
E. Rev.ma Erio Castellucci
arcivescovo di Modena-Nonantola e vescovo di Carpi
 
Is 9,1-6; Sal 95/96; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14
La storia umana è un intreccio tra i pochi che contano e i molti che sono contati. I pochi che contano, nell’episodio della nascita di Gesù, sono: Cesare Augusto, l’Imperatore, e Quirinio, il Governatore della Siria sotto il cui territorio si collocava anche la Palestina e, dunque, Betlemme. Tra i molti che erano contati, cioè che vennero censiti in quella statistica messa in piedi ogni tanto dagli imperatori nei loro territori, ci sono: Giuseppe, Maria e Gesù. Dei molti che sono contati non sappiamo nulla dalla storia, o quasi nulla; dei pochi che contano invece sappiamo molto: l’Imperatore Cesare Augusto, che si chiamava Caio Giulio Cesare Ottaviano, è il primo degli Imperatori romani; ha regnato per oltre quarant’anni, e quando nacque Gesù regnava già da una ventina d’anni. Venne chiamato Augusto, perché, ancora vivente, fu considerato dal Senato romano: eccelso, altissimo, nobilissimo. E lo è stato davvero: sotto di lui si è realizzata quella che comunemente è chiamata la pace romana: non ci sono state grosse guerre, qualche sommovimento – guarda caso in Palestina – ma tutto sommato, rispetto ai confini dell’Impero, si trattava di battaglie da poco. La pace romana venne celebrata, proprio a metà del lungo impero di Augusto, con monumenti che ancora si ammirano a Roma, alcuni dei quali sono datati attorno agli anni della nascita di Gesù. Questo imperatore pare abbia indetto tre censimenti, sotto uno dei quali è caduto anche Gesù. Il piccolo Gesù dunque è stato censito, è stato contato.
Di molto minore importanza è Quirinio, il secondo tra i personaggi che contano indicati nel Vangelo. Un bravo governatore che aveva sotto di sé alcune legioni, come negli altri territori delle province, per tenere a bada i popoli assoggettati.
E poi c’è un piccolo elenco dei personaggi contati: Giuseppe, Maria e Gesù, personaggi che non contavano. Se non fossero la sacra famiglia, se non ci fossero i Vangeli, se non fosse successo quello che sappiamo con Gesù, nessuno si sarebbe ricordato di questi popolani: erano tre personaggi minori dell’Impero, insieme a tante altre decine e decine di migliaia che vennero registrate in quel censimento. Ma questi personaggi minori immediatamente capovolgono la gerarchia; in qualche modo ci costringono a darci un altro ordine di importanza: evidentemente nell’anagrafe di Dio, a differenza dell’anagrafe dell’Imperatore, coloro che non contavano erano coloro che davvero contavano. Perché Gesù ribalta questa scala e i personaggi elencati dal Vangelo assumono un’importanza esattamente inversa rispetto a quella che avevano nella storia civile.
Per capire l’importanza di questo elenco allora dovremmo cominciare dall’ultimo, Gesù, che è un neonato: e come tale nella mentalità dell’epoca non contava nulla, perché i bambini non erano considerati ancora veri e propri esseri umani, bensì degli esseri in divenire. Eppure è in assoluto il più importante di tutti. E a seguire Maria, che nella scala civile contava molto meno di Giuseppe, perché Giuseppe era un uomo e Maria era una donna, Giuseppe era il capo-famiglia e Maria invece era subordinata al marito, Giuseppe era della casa di Davide – la casa della discendenza regale – e Maria invece era discendente di una tribù secondaria. Eppure nel registro di Dio Maria è più importante di Giuseppe. E’ la Madre, è l’Immacolata. E poi Giuseppe, la cui importanza sta proprio nel partecipare, senza capire, al mistero di Dio. E poi, ultimi nell’anagrafe di Dio, arrivano l’Imperatore e il governatore.
La nascita di questo bimbo sovverte le scale gerarchiche umane, ci fa capire che ciò che conta agli occhi di Dio è ciò che spesso non conta agli occhi degli uomini e viene semplicemente contato; ci fa capire come ogni singola persona che sembra valere poco, che si colloca ai margini della società, che appare così laterale come era Betlemme (un piccolo villaggio di pastori) rispetto a Roma (la grande capitale)… questi piccoli personaggi sono in realtà grandi davanti a Dio: anzi, Dio ama proprio ciò che è lasciato da parte dagli uomini.
Ancora oggi noi facciamo tanti conteggi, e a volte dimentichiamo che coloro che vengono contati hanno dei volti, delle storie. Noi contiamo gli affamati nel mondo: più di 820 milioni; contiamo gli assetati: più di un miliardo e mezzo; continuiamo a contare ogni giorno coloro che sono colpiti dalla pandemia, contiamo il numero dei profughi, i caduti delle guerre e così via: ma non sempre pensiamo che dietro questi numeri ci sono dei volti, delle storie. E questo bambino si è identificato proprio con coloro che vengono contati e che contano poco. La scala di Dio non mette al primo posto la superbia, l’orgoglio, l’imponenza, l’affermazione di sé, la violenza, ma mette al primo posto l’umiltà, la ricerca della verità, la pace.
Gli angeli che compaiono alla nascita di Gesù annunciano ai pastori “gloria a Dio nell’alto dei cieli”, e non “gloria sulla terra”; agli uomini danno un altro metro, che non è la gloria, ma la pace. Lo specchio terreno della gloria di Dio non è l’innalzamento, il potere sulla terra, è la pace in terra agli uomini che egli ama. Siamo specchio della gloria di Dio nella misura in cui costruiamo la pace, a partire dalle nostre relazioni quotidiane, dal nostro piccolo, dalla nostra Betlemme. Certo vorremmo la pace anche da Roma, dai centri degli Imperi, ma tante volte gli imperatori non cercano la pace, cercano di innalzarsi, cercano l’affermazione di sé, cercano la gloria; mentre coloro che sono contati e che contano poco cercano la pace perché sono le prime vittime delle guerre.
Chiediamo al Signore il dono della pace e impegniamoci sempre di più – credo che ne siamo tutti convinti, soprattutto dopo questo anno così devastante – per costruirla a partire dal nostro piccolo. Non possiamo invocare la pace da Roma se non la costruiamo a Betlemme. Non possiamo pensare che la pace parta dal palazzo dell’Imperatore senza che parta dalla grotta del nostro cuore.
 
+ Erio Castellucci
 

Omelia nella Messa del Giorno di Natale
Domenica 25 dicembre 2022, ore 10.45
Carpi, Cattedrale
 
E. Rev.ma Erio Castellucci
arcivescovo di Modena-Nonantola e vescovo di Carpi
 
Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18
Il Vangelo di Giovanni inizia come la Bibbia. Il primo libro della Bibbia – il Libro della Genesi – inizia con le parole: In principio, e queste sono anche le prime parole del vangelo di Giovanni. In principio: ma quando? Genesi e Giovanni si riferiscono a due principi diversi, potremmo dire due tempi diversi, se non fosse che in Dio non c’è un tempo, almeno non un tempo come quello che scorre sulla terra.
La Genesi comincia così: “In principio Dio creò il cielo e la terra”, quindi è il principio stesso del mondo, è il principio del tempo, è il principio della nostra storia; Giovanni invece va più indietro, va oltre, va in profondità: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio”: cioè Giovanni entra nel cuore stesso di Dio, prima del tempo, prima del mondo, era il Verbo. Con il Vangelo di Giovanni si apre la possibilità di entrare nella vita di Dio prima ancora e al di sopra della creazione del mondo, della nostra storia. E c’è una sorpresa: Dio non è solo, la natura stessa di Dio è relazione, in Dio c’è il legame; si potrebbe tradurre anche così la parola Logos: Verbo, Legame, Relazione. C’è dunque comunicazione in Dio. Dio non è un essere solitario, non è tutto compreso in se stesso: Dio è legame, Dio è rapporto, ed è per esprimere la sua stessa natura che mette in moto il mondo, perché se uno è in se stesso legame, ha il desiderio di esprimere questo legame; in Dio c’è dunque anche il Verbo.
Ma poi c’è un’altra sorpresa nel Vangelo di Giovanni, una sorpresa ancora più grande per il credente; che Dio fosse legame, che ci fosse una Parola in Lui, lo avevano intuito anche alcuni filosofi, ma che questa Parola si facesse carne era del tutto inatteso: “Il Verbo si fece carne”. L’Eterno si fa corpo.
 Carne”, la parola che usa Giovanni non è semplicemente la natura umana come la intendiamo noi. Noi diciamo – e l’abbiamo sentito anche nella Colletta – che ha assunto la natura umana: però detto così sembra generico, non ci fa cogliere le sfumature di questa natura umana. Il Verbo si è fatto carne, cioè ha preso un’umanità fragile, un’umanità delicata, un’umanità ferita: ecco cosa significa che il Verbo si è fatto carne.
Oggi in Chiesa ci troviamo di fronte due immagini, che rappresentano l’inizio e la fine dell’incarnazione: l’immagine della culla e l’immagine della croce. Il Verbo si fa carne nella fragilità di un corpo, di un concepito, di un neonato: più fragile di così è difficile pensarlo. Il neonato attira affetto, tenerezza, relazione, proprio perché è il simbolo stessa della fragilità, è una calamita che attira i nostri affetti e li risveglia; non c’è nulla di più delicato di un bimbo appena nato. “Si è fatto carne”, significa che ha voluto passare attraverso il grembo e attraverso la culla; ma (sorpresa nella sorpresa!) il suo farsi carne arriva davvero fino in fondo, fino alla croce, perché la croce è l’estrema fragilità, è la ferita più grande che si possa immaginare. La croce è il segno del disprezzo, dell’esclusione dalla vita sociale, civile, religiosa; la croce è il segno della vergogna, addirittura per gli ebrei è una sorta di maledizione divina: più carne di così non poteva farsi, ha davvero condiviso tutto. E tra la culla e la croce ci sono tutte le esperienze della nostra vita: c’è la tenerezza e c’è il disprezzo, c’è l’accoglienza e c’è il rifiuto, c’è l’amore e c’è l’odio, quasi a dire che non ha lasciato fuori nulla nel suo farsi carne. Questo Verbo che è nel seno del Padre dall’eternità si è davvero giocato la vita per noi attraversando tutte le fasi e tutte le esperienze della nostra esistenza, cioè la nostra carne.
Una volta, visitando un Istituto a Ravenna – l’Istituto Santa Teresa fondato da un sacerdote un secolo fa – nel quale sono accolte alcune centinaia di persone gravemente disabili o molto malate, nel reparto dei bambini ho notato all’ingresso la raffigurazione scultorea di un bimbo che riproduceva Gesù con l’aureola, ma questo bimbo Gesù non era adagiato sulla culla, era inchiodato sulla croce. Quella è la sintesi: il Verbo si è fatto carne, ha raccolto le due esperienze più delicate e più fragili che possiamo immaginare: l’infanzia e la sofferenza: e ha espresso con queste scelte anche le proprie preferenze: il Signore cioè preferisce manifestarsi più che nelle situazioni di potenza e di gloria, nelle situazioni di fragilità e debolezza, e queste le rende manifestazioni di gloria – come abbiamo sentito anche nella seconda lettura – è irradiazione della gloria del Padre… ma entrando nella nostra carne. Questo è il miracolo che fa il Signore e che ci chiede di continuare a fare: vederlo, apprezzarlo, accoglierlo, curarlo nella carne, specialmente nei piccoli, nei fragili, negli ammalati e nei sofferenti.
La Chiesa è tanto più fedele a questo Verbo che si fa carne quanto più si china sulle ferite degli uomini: e questo il Signore lo chiede a tutti noi. Così sarà un buon Natale.
+ Erio Castellucci