Riconoscersi amati da un Padre pieno di misericordia

La gratitudine e la lode, clima necessario per la confessione CARPI 8 febbraio 2016

Sono molti gli approcci possibili al sacramento della penitenza o della riconciliazione; ma la felice coincidenza del Giubileo della misericordia e l’imminenza della Quaresima ci offrono uno spunto molto interessante per entrare in questo tema attraverso le parole di papa Francesco che non dimenticano certamente gli aspetti teologici, morali e liturgici, ma non tralasciano neppure la componente umana che, forse più che in altri sacramenti, concorre a determinarne la sua accoglienza e l’effettiva pratica. E questo riguarda due categorie di persone che, con responsabilità diverse, si debbono incontrare tra loro per far scorrere le parole e i gesti che svelano e rinnovano il mistero dell’Amore misericordioso: il penitente e il confessore.
 
“La Quaresima di quest’anno giubilare sia vissuta più intensamente come momento forte per celebrare e sperimentare la misericordia di Dio.
L’iniziativa ‘24 ore per il Signore’ è da incrementare nelle diocesi. Tante persone si stanno riavvicinando al sacramento della riconciliazione, tra questi molti giovani che in tale esperienza ritrovano spesso il cammino per ritornare al Signore, per vivere un momento di intensa preghiera e riscoprire il senso della propria vita. Poniamo di nuovo al centro con convinzione il sacramento della riconciliazione, perché permette di toccare con mano la grandezza della misericordia. Sarà per ogni penitente fonte di vera pace interiore.
Non mi stancherò mai di insistere perché i confessori siano un vero segno della misericordia del Padre. Non ci si improvvisa confessori. Lo si diventa quando, anzitutto, ci facciamo noi per primi penitenti in cerca di perdono. Non dimentichiamo mai che essere confessori significa partecipare della stessa missione di Gesù ed essere segno concreto della continuità di un amore divino che perdona e salva. Ognuno di noi sacerdoti ha ricevuto il dono dello Spirito Santo per il perdono dei peccati e di questo siamo responsabili. Nessuno di noi è padrone del Sacramento, ma un fedele servitore del perdono di Dio. Ogni confessore dovrà accogliere i fedeli come il Padre della parabola del figlio prodigo: un padre che corre incontro al figlio nonostante avesse dissipato i suoi beni. I confessori sono chiamati a stringere a sé quel figlio pentito che ritorna a casa e ad esprimere la gioia per averlo ritrovato. Non si stancheranno di andare anche verso l’altro figlio rimasto fuori di casa e incapace di gioire, per spiegargli che il suo giudizio severo è ingiusto e non ha senso dinanzi alla misericordia del Padre che non ha confini. Non porranno domande impertinenti, ma come il Padre della parabola interromperanno il discorso preparato dal figlio prodigo, perché sapranno cogliere nel cuore di ogni penitente l’invocazione di aiuto e la richiesta di perdono. Insomma i confessori sono chiamati ad essere sempre, dovunque, in ogni situazione e nonostante tutto il segno del primato della misericordia. (MV,17)
 
Mi perdonerete la lunga citazione della bolla di indizione del Giubileo della misericordia, dal titolo fortemente significativo: “Il volto della misericordia. La speranza di essere amati gratuitamente nonostante le nostre miserie”. Credo che questo brano che si riferisce particolarmente al percorso di Quaresima, indichi la sostanza del sacramento della misericordia perché ne abbraccia tutte le componenti.
Evidentemente io non le percorrerò tutte, anche perché Papa Francesco non perde occasione per allargare e approfondire ogni giorno questo grande mistero. Cercherò tuttavia di proporre qualche riflessione che aiuti tutti a riscoprire, anche in senso di testimonianza missionaria, l’amore e il desiderio del quarto Sacramento.  
 
Anzitutto Dio, il Padre, vera e unica fonte di un perdono che va oltre la richiesta, che non solo dimentica il male compiuto, ma risana la vita ferita e la riporta ogni volta alla pienezza della sua dignità.
Ma anche i figli, tutti e due, che riscoprono una figura paterna che in qualche modo avevano eliminato dalla loro vita, intraprendendo un pellegrinaggio di ritorno molto chiaro per il primo, un po’ meno decifrabile per il secondo: non sappiamo se il maggiore sia rimasto convinto pienamente dal discorso del Padre.
E in questi due figli ci mettiamo sicuramente anche noi per tentare di comprendere il dono che il Padre ci fa nel segno della riconciliazione: quel sacramento del perdono che dobbiamo rivalutare, per rifondare il desiderio e riprendere la buona abitudine di sentirsi avvolti da questo perdono, partendo dalla consapevolezza del nostro essere peccatori, incapaci di rispondere con piena continuità a un amore che ci avvolge e ci supera. Inoltre, ad alcuni di noi, i sacerdoti, è stata conferita anche la grande responsabilità di essere amministratori di questo dono e il Papa ci ricorda i doveri che ogni confessore ha di fronte a chi gli apre il cuore con un minimo di desiderio di invocare questa Misericordia, avendo riconosciuto il proprio limite, il proprio peccato.
 
È necessario perciò ripartire proprio da quel Padre, perché solo in rapporto a lui si può comprendere quanto il peccato ci faccia perdere nei confronti della vita che solo nelle sue mani può giungere alla pienezza della propria affermazione.
 Ma è l’esperienza della miseria che consente al prodigo di guardare in faccia la via della morte che sta percorrendo e di avere lo scatto della ribellione. Quando ci sentiamo soli, quando nessuno sembra volerci più e noi stessi abbiamo magari ragioni per disprezzarci ed essere scontenti di noi, quando la prospettiva della morte o di una perdita grave ci spaventa e ci getta nella depressione, ecco che dal profondo del cuore riemerge il presentimento e la nostalgia di un Altro che possa accoglierci e farci sentire amati al di là di tutto e nonostante tutto.
Il Padre, in questo senso, è l’immagine di qualcuno a cui affidarci senza riserve, il porto dove far riposare le nostre stanchezze, sicuri di non essere respinti. La sua figura ha, al tempo stesso, tratti paterni e materni: se ne può parlare come del papà nelle cui braccia forti si è sicuri e come della madre a cui ancorare la vita che da essa riconosciamo ricevuta.
E’ pertanto una evocazione dell’origine, del grembo, della casa, del focolare, del cuore a cui rimettere tutto ciò che siamo, del volto a cui guardare senza timore. Il bisogno del Padre è quindi equiparabile al bisogno di un riferimento e di un rifugio paterno e materno.
In questa luce la parola del prodigo ‘mi alzerò e tornerò da mio padre’, esprime l’esigenza di una condizione in cui riconoscersi e di una meta verso cui tendere.
 
Se le cose stanno così, perché allora nel nostro mondo e in tante persone è presente un rifiuto della figura paterna? Perché i tanti figli più giovani, come quello della parabola, vogliono andarsene lontano dalla casa paterna e dal padre: quella materiale e soprattutto quella spirituale nella quale si è cresciuti fino all’adolescenza?
Le ragioni del prodigo per andar via di casa sono le stesse per le quali è stata coniata l’espressione ‘uccisione del padre’, in senso psicologico, ma anche di fede. Essa rivela l’impulso di chiedere conto e ragione a chi pensiamo che in qualche modo stia sopra di noi, di ciò che ci spetta, per essere finalmente padroni di noi stessi e del nostro destino, per fare ciò che ci piace.
Questo processo di emancipazione dei singoli dalla figura del padre, si è realizzato anche a livello collettivo, di mentalità corrente, negli ultimi secoli della nostra storia e ha dato origine all’attuale secolarismo. La vicenda è nota: l’illuminismo del secolo XVIII ha voluto introdurre l’età della ragione adulta, la ‘dea ragione’, padrona di sé e del destino del mondo, dove ognuno potesse gestirsi da se stesso e ordinare la vita secondo il proprio calcolo e progetto. Un processo che ha avuto un drammatico risvolto nella negazione esplicita di Dio, inteso come Padre e signore: così si è sviluppato l’ateismo programmatico, quale altra faccia di uno sforzo di emancipazione totale da Dio.
È inutile ricordare come l’ideologia, tronfia delle proprie conquiste, abbia travolto anche se stessa nel fumo dei forni crematori e nei genocidi del nostro novecento. La società senza padri prodotta dalle ambizioni totalitarie della ragione, si è risolta in una folla di solitudini. La cosiddetta crisi delle ideologie e il sorgere del ‘pensiero debole’ che hanno caratterizzato la fine del secondo millennio, nascono proprio dall’esperienza del fallimento delle pretese della ragione adulta.
 
In concreto tutto ciò che significa? Che cadono gli orizzonti forti di senso, si diffonde una reazione di rifiuto delle certezze ideologiche, si profila un senso di disagio e di spaesamento. L’indifferenza (pensate al messaggio per la pace), la mancanza di passione per la verità, l’incapacità a sperare in grande, spinge molti a chiudersi nel corto orizzonte dei propri interessi o degli interessi di gruppo: nella nostra epoca la frammentazione prende il posto dei sistemi totali.
La fine della società senza padri non equivale tuttavia a un ritorno alla figura del Padre che sta nei cieli: anzi, il relativismo che si diffonde come conseguenza dell’abbandono delle certezze valoriali, sembra rendere gli uomini ancora più chiusi in se stessi e più soli. In questa concezione di vita Dio Padre non è più un avversario da combattere o un despota da cui liberarsi, ma è figura priva di ogni interesse o attrattiva.
Ignorare il Padre è in fondo più tragico che combatterlo per emanciparsi da lui. Al massimo si convive con lui, ma senza lasciarsi in nulla segnare o trasformare da lui: è la condizione che la parabola esprime attraverso la figura del figlio maggiore, quello restato a casa che, dopo tanti anni di convivenza col padre, rimane incapace di comprendere la sua logica di vita che è amore e perdono.
 
Evidentemente questa non è una descrizione senza speranza del mondo in cui viviamo, soprattutto questo nostro mondo occidentale e stanco. Comunque la gente vive normalmente, pur senza accorgersene, in diversi mondi culturali che si intersecano e sovrappongono. In parte percepisce nel profondo il senso di una paternità dall’alto e recita con fiducia, almeno in certi momenti, il Padre nostro. In parte condivide nell’inconscio le diffidenze della cultura moderna verso il Padre e vorrebbe emanciparsi da un Dio che sente come padre sì, ma anche padrone di una storia spesso ingiusta e cattiva. E così si vive un senso di smarrimento che si esprime nell’indifferenza, nella sfiducia verso una verità più alta, e nello stesso tempo nell’arrembaggio a ciò che è effimero.
È questo ultimo aspetto che spiega la lontananza dalla Chiesa e dai suoi sacramenti di salvezza, quello della riconciliazione in particolare, soprattutto delle persone di mezza età, uomini e donne che tengono tra mano la responsabilità dell’educazione dei figli, e tanta indifferenza e smarrimento tra i giovani. Il problema è che occorre riconoscere il peccato come elemento negativo per la nostra vita, qualcosa che, alla fine, ne ostacola l’affermazione: ma quali affermazioni insegue il nostro vivere, faticare, studiare, lavorare, amare, intessere relazioni significative, ecc.?
 
Non vorrei però che il nostro pensiero corresse a coloro che chiamiamo ‘lontani’: dobbiamo richiamare questa situazione al nostro vissuto personale. Ce lo chiede la parabola dei due figli: entrare nei personaggi dicendo a noi stessi, come il profeta Natan a Davide: tu sei quell’uomo! È solo sperimentando in noi stessi i rigurgiti del nostro tempo, prendendone coscienza nel bene e nel male, che non guarderemo più, quasi dal di fuori, coloro che fanno fatica nella fede e nella pratica cristiana; non li sentiremo più lontani da noi, magari con un senso di disagio o di fastidio, ma li riterremo compagni di un cammino comune, parte della nostra storia, specchio del nostro intimo, e diremo a noi e a loro le parole vere che lo Spirito ci dice dentro. Lo Spirito di Gesù grida infatti “Abbà, Padre, papà”, anche in noi uomini e donne di questo tempo indifferente e distratto.
 
Riflessioni che rappresentano praticamente la sintesi della lunga conversazione di Papa Francesco che ha preso corpo in un libro tanto piccolo quanto prezioso, il cui titolo è insieme provocatorio e commovente: “il nome di Dio è Misericordia”.
“Si, afferma il Papa, io credo che questo sia il tempo della misericordia!” Più scopriamo attorno noi un mondo ferito, senza punti di riferimento se non se stessi, che corre dietro alle cose materiali per trovare una risposta alle grandi domande della vita, che lì non troverà mai, e più la Chiesa deve mostrare il suo volto di mamma a questa umanità. “La nostra epoca -dice il Papa- è un kairòs, di misericordia”: possiamo e dobbiamo riscoprire Dio per quello che veramente è e come Gesù ce lo ha rivelato:” la misericordia è in realtà il nucleo centrale del messaggio evangelico, è il nome stesso di Dio, il volto con il quale egli si è rivelato nell’antica alleanza e pienamente in Gesù Cristo, incarnazione dell’amore creatore e redentore. Questo amore di misericordia si manifesta sia mediante i sacramenti, in particolare quello della riconciliazione, sia con le opere di carità comunitarie e individuali”.
Come suo solito, Papa Francesco usa il linguaggio dell’esperienza umana e della fede che la anima, linguaggio da tutti facilmente compreso.
In una simile cultura occorre che il discepolo riscopra e testimoni la vera identità di questo Padre. Laddove l’uomo si chiude in se stesso, o pretende di abbracciare l’intero universo nel corto orizzonte dei suoi progetti, trionfano l’angoscia e il non senso della solitudine.
Invece, laddove la persona accetta di mettersi in ricerca e di aprirsi a un orizzonte più grande, la figura del Padre colmo di misericordia ci viene incontro e ci chiama. Figura che ci appare in tutta la sua novità rispetto alle immagini stereotipe che tante volte abbiamo potuto farcene: non fa concorrenza all’uomo, alla sua libertà, al suo progetto di emancipazione. Il ritorno al Padre ci fa liberi e ci chiama a libertà, ci provoca a essere noi stessi, a costruire con responsabilità il nostro avvenire e lo edifica con noi. Rispettoso della libertà del figlio minore fino a soffrire d’amore e d’attesa, speranzoso nel ritorno dello stesso figlio e sempre felice di questo ritorno desiderato e sospirato, senza tuttavia averne mai intralciato le decisioni: pronto al perdono e alla vita nuova senza recriminazioni o rimpianti.
 
Perché il Sacramento della riconciliazione sembra non possedere più il fascino di questo amore incantevole? Forse non abbiamo ancora contemplato (e men che meno testimoniato) a sufficienza il vero volto del Padre che si rivela nel volto di colui che ce lo ha rappresentato nell’involucro di una vita perfettamente umana, oltre che divina: Gesù. E’ lui, il Figlio dell’eterno che ci rende una cosa sola con lui e ci insegna a essere figli. Nessuno può essere davvero figlio se non in lui. Ogni ‘rifiuto del Padre’ non sarà superato pienamente che entrando in lui. Gesù infatti ci fa partecipi della sua condizione filiale: perciò mette sulla nostra bocca il Padre nostro, la preghiera dei figli, e ci dona il suo Spirito che in noi grida la parola che più di ogni altra esprime l’amore filiale: “Abbà, papà!” (cf Rom 8,15; Gal 4,6). La percezione che il cristiano ha del mistero del Padre non è esprimibile a parole, ma affonda nella conoscenza che ne ha Gesù Cristo figlio, ed è affidata alla grazia dello Spirito Santo. Non si può dimenticare che Gesù pronuncia questa parola anche durante la sua agonia, mentre è prossima la consegna suprema che farà di sé nell’ora della croce: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio ma ciò che vuoi tu”(Mc 14,36). Nella sua indicibile agonia Gesù ci insegna a essere figli, assumendo su di sé l’angoscia che il cuore umano prova davanti alla morte. Egli si fida di Dio anche nell’ora dell’apparente abbandono, rimette la sua vita nelle mani del Padre anche nel momento in cui il buio copre tutta la terra e il velo del tempio si squarcia nel mezzo: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46).
Grazie al Figlio noi pure possiamo far nostre quelle parole e trasformare l’angoscia in abbandono, la rivolta in affidamento liberatore. Gesù ha abitato il buio dell’angoscia e l’oscurità della morte perché noi possiamo vivere la vita e la morte nell’abbandono al Dio fedele.
E così possiamo fare esperienza di Dio come Padre accogliente, benevolo, attento a ogni più piccolo passo, accessibile, provvidente, perdonante.
Sentendoci amati così possiamo pregare non solo per avere il sostegno nella quotidianità dei nostri bisogni spirituali, e anche vitali e corporei, ma per essere accolti con tutte le nostre fragilità. ”Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”: perdonaci per le nostre colpe e rendici capaci di perdonare chi ci ha offeso, stabilendo con tutti relazioni fraterne, fondate nella gioia della relazione filiale con te.
La domanda per la remissione dei peccati è legata al perdono fraterno. Gesù parla di perdonare fino a settanta volte sette! Ma a chi perdonare? A tutti coloro da cui pensiamo di aver ricevuto qualche torto, un trattamento ingiusto. Tutti coloro che ci hanno deluso, che non ci hanno dato quell’amore, quell’attenzione, quell’ascolto che ci saremmo attesi.  Ma questo ci serve anche per comprendere, al di là di formule un po’ superficiali di esame della coscienza, quanto noi stessi abbiamo bisogno del perdono di Dio per concederlo agli altri. Ci sono dentro di noi tante piccole ferite e amarezze: è necessario medicarle con l’olio e il balsamo di un continuo, sincero perdono. Tutto ciò ci farà stare meglio, pure in salute, e ci farà gustare profondamente il perdono del Padre non solo per le nostre colpe, ma anche per le nostre inadeguatezze, per tutto ciò che abbiamo negato a Dio e per tutti i nostri incalcolabili peccati di omissione.
 
Chiediamoci: quando preghiamo il Padre nostro, sperimentiamo qualcosa di questa pace di questa gioia, di questa pienezza? Perché non provare qualche volta a recitare il Padre nostro non nello spazio di un minuto, bensì impiegandoci un quarto d’ora, mezz’ora, gustando e assaporando le singole parole? Perché non provare, come faceva Santa Teresa d’Avila, a restare anche più a lungo sulla sola parola Padre? I silenzi ci diranno assai più di tante parole! E forse, la cosiddetta preghiera penitenziale, che normalmente accompagna le nostre confessioni, finirebbe di essere il breve pagamento di una fantomatica tassa spirituale, e ci accorgeremmo di aver imparato davvero a perdonare, per il semplice fatto di scoprirci debitori non solo verso il Padre, ma verso i fratelli, tutti, da quelli più lontani da quelli più vicini, da quelli che invocano una dignità che non hanno, a quelli che cercano la minima possibilità per vivere, mentre noi sprechiamo spesso e allegramente di tutto; da coloro che si aspettano dai cristiani la testimonianza di un Dio che è amore, a coloro che sembrano non fargli minimamente posto nella loro vita!
 
Se dunque non solo è importante, ma addirittura essenziale per la nostra fede incontrare il Padre della misericordia come si è svelato in Gesù, in che modo noi discepoli ci sentiamo chiamati a testimoniare non soltanto una convinzione intellettuale, ma una pratica profonda che nasce dalla certezza di essergli figli e dall’impegno per vivere da fratelli?
Dobbiamo renderci conto che non si può parlare o incontrare Dio se non così: Padre che non si accontenta di stare in casa ad attenderci, ma ci lascia liberi di tornare a lui quando vogliamo: gli basta intravedere la nostra figura sull’orizzonte per correrci incontro. Il nostro è  come un’incessante pellegrinaggio, una sorta di ritorno a casa che non è mai pienamente compiuto.
Ognuno deve essere se stesso, senza pretendere risultati eclatanti e senza sentirsi inviato a imprese che superano le sue forze. Con umiltà e amore ciascuno seminerà come potrà e dove potrà, nella certezza che il primo ad agire nel cuore di tutti è il Padre stesso che tutti attira a sé nel suo Spirito.
 
Ma il Padre di Gesù è il Padre dei poveri: non solo perché Gesù ha voluto essere povero e ha dichiarato che è dei poveri il regno dei cieli; ma anche perché solo chi è povero nel suo cuore può aprirsi all’affidamento incondizionato di sé. Certo, la povertà non è di per sé condizione sufficiente per incontrare Dio come Padre, soprattutto se questa povertà cancella anche la dignità delle persone. La povertà del cuore, l’apertura e abbandono alla provvidenza del Padre è necessaria per una autentica esperienza dell’amore misericordioso del Dio di Gesù. Insieme però il discepolo dovrà fare di tutto perché la povertà  non offenda mai l’immagine del Padre in nessuno dei suoi figli.
Il ritorno al Padre implica perciò, con la conversione del cuore, un impegno serio e perseverante del credente per creare condizioni di dignità per tutti, in modo che non manchi a nessuno l’insieme delle condizioni minime per riconoscere e adorare il Padre in spirito e verità. Occorre superare le logiche di chiusura egoistica per le quali si considera necessario difendere i propri diritti contro le pretese di altri più bisognosi. La grandezza di una civiltà si misura anzitutto dalla sua capacità di accoglienza e di condivisione delle proprie risorse con chi ne ha bisogno.
“In questo Anno Santo potremo fare l’esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali –ci dice il Papa, indicandone anche la strada. E’ mio vivo desiderio che il popolo cristiano rifletta sulle opere di misericordia corporale e spirituale. Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre più nel cuore del Vangelo”.  
 
Allora la riconciliazione sacramentale, come ritorno al Padre condotti per mano dallo Spirito di Gesù risorto, diventa veramente una benedizione proclamata con la parola e attuata con la vita. L’impegno del cristiano diventa quello di celebrare il primato di Dio come ci ha insegnato a farlo il Figlio eterno venuto ad abitare la nostra carne.
Ogni volta che ci accostiamo al Sacramento del perdono, prima ancora di pensare alle mancanze o ai problemi che vogliamo esporre, ci verrà spontaneo fare nostro l’inno di lode, di gioia e di grazia sgorgato dal cuore di Paolo (Ef 1,3-14):
“Benedetto sia Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo!”
La ragione profonda di questa stupenda benedizione, che è un atto di immensa gratitudine e lode, è la scelta misteriosa del Padre per la quale siamo stati chiamati a partecipare alla vita del Figlio secondo un progetto eterno, che ci supera e ci avvolge:
“in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà”.
Siamo davanti a un mistero grande che abbraccia l’intero svolgersi dell’esistenza del mondo e della storia e ci fa sentire solidali e partecipi del destino dell’universo: ogni volta che ritorniamo a lui con il fardello dei nostri peccati, dei nostri limiti quasi insuperabili, delle nostre cattiverie e degli sbandamenti che non riusciamo evitare; ogni volta che sentiamo il dono e la forza di rialzarci, distogliendo magari con fatica lo sguardo da ciò che ci ha abbagliato e volgendoci invece verso di lui, dobbiamo sentire dette per noi queste parole da brivido: in lui ci ha scelti, in lui ci ha chiamati per nome prima della creazione del mondo. Il mio nome, da sempre, è iscritto nel cuore e nella mente di Dio: sa chi sono e come sono; magari io ho vergogna a svelare le mie bassezze e i miei limiti, ma lui no! Li conosce già e interrompe, se necessario, la nostra narrazione fastidiosa per dirci: ma guarda me, guarda i miei occhi che sorridono per il tuo ritorno, ferma lo sguardo sul mio Figlio crocifisso! Non ti basta ancora per comprendere che io, comunque, ti amo e ho a cuore la tua felicità?
 
“Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con lui?”(Rm 8,31).
 
“È questo il cuore di Dio -dice Papa Francesco- un cuore di Padre che ama e vuole che i suoi figli vivano nel bene e nella giustizia, e perciò vivano in pienezza e siano felici. Un cuore di Padre che va al di là del nostro piccolo concetto di giustizia per aprirci agli orizzonti sconfinati della sua misericordia. Un cuore di Padre che non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe, come dice il salmo (103,9s). E precisamente è un cuore di Padre che noi vogliamo incontrare quando andiamo in confessionale. Forse ci dirà qualcosa per farci capire meglio il male, ma nel confessionale tutti andiamo a trovare un confessore-padre che ci aiuti a cambiare vita; un padre che ci dia la forza di andare avanti; un padre che ci perdoni in nome di Dio. E per questo essere confessori è una responsabilità tanto grande, perché quel figlio, quella figlia che viene da te, cerca soltanto di trovare un padre. E tu, prete, che sei lì nel confessionale, tu stai lì al posto del Padre che è nei cieli e che fa giustizia con la sua misericordia (Udienza 3.2.16).
 
Perché dunque non desiderare e praticare di più e meglio questo incontro dal quale non possiamo ricavare altro che il sentirci amati, abbracciati e perdonati, trattati come la persona più importante del mondo, per la quale il Figlio di Dio ha voluto assomigliarci fin nella morte, perché neppure essa, frutto del peccato, potesse spaventarci.
Nel giubileo del popolo d’Israele si fermavano anche i lavori della terra, raccogliendo soltanto ciò che essa produceva spontaneamente.
Perché non fermarci un po’ di più anche noi per raccogliere questo dono immenso che spontaneamente il Padre di Gesù continua a offrirci?