Nel mistero del dolore, di fronte al quale il pensiero e il progresso s’infrangono come mosche sul vetro, è proprio Gesù a offrirci l’esempio di come comportarci: non fuggendo la sofferenza, che appartiene a questa vita, ma neppure facendosi imprigionare dal pessimismo. Ed ecco che – ha proseguito Papa Francesco il 2 aprile scorso con accenti di forte radicalità evangelica – attorno al sepolcro di Lazzaro avviene un grande incontro/ scontro. Da una parte, la delusione più cocente, dall’altra, la speranza. Tradotto: dobbiamo scegliere, se stare dalla parte del sepolcro oppure dalla parte di Gesù. Un quadro off erto alla gente della bassa modenese che, pur tra mille fatiche e contraddizioni, cinque anni fa non ha scelto di stare dalla parte del sepolcro, e si è rimboccata le maniche, fi no a rinascere dalle proprie macerie. È trasparente la valenza antropologica, e non solo teologica, di tale chiave di lettura: con l’invito a venir fuori dal gorgo di una tristezza priva di sbocchi, di una paura che ci ostacola quotidianamente nel cammino, di inquietudini che ci bloccano, provati da un sisma o meno che siamo. Perché, come è emerso anche nel discorso del pomeriggio, pronunciato nella piazzetta davanti all’ingresso del duomo di Mirandola, ancora chiuso e completamente puntellato, un terremoto non è soltanto una tremenda prova che diversi territori sono costretti loro malgrado a subire di quando in quando, ma anche l’immagine potente di una realtà problematica che, prima o poi, attraversa l’esistenza di ciascuno di noi. Un’esperienza che ferisce, rischia di compromettere equilibri a fatica raggiunti, produce disagi a non finire. Ma che non può, e non deve avere, l’ultima parola. A Mirandola, in particolare, dove il bagno di folla è stato più marcato per l’esiguità degli spazi disponibili, Francesco ha deciso di offrire ai presenti, e a quanti lo ascoltano con cuore sincero, una sottolineatura inedita della sua sensibilità pastorale. Lì, infatti, il papa delle periferie e dell’attenzione agli ultimi che vi risiedono ha detto che, soprattutto in contesti simili, non si può, non si deve peraltro trascurare la rilevanza dei centri storici, invitando a fare di tutto per recuperarli appieno. Perché, esattamente come le periferie, i centri cittadini non sono soltanto luoghi geografi ci, ma altresì “luoghi della memoria storica e sono spazi indispensabili della vita sociale ed ecclesiale”, e spazi fondamentali per il bene comune e comunitario. Da queste parti, in effetti, è così. Dove dirsi “ci vediamo in piazza” rappresenta molto più che darsi un semplice appuntamento, ma sapere che, nel tempo della frammentazione a oltranza e delle amicizie sui social, esiste ancora un punto di riferimento condiviso: lì si ritrovarono i tuoi nonni e si ritroveranno i tuoi nipoti. Da questo punto di vista, recuperarne il senso profondo, come recuperare il senso della festa, sarà vitale per rinascere davvero dalle macerie. Quelle fi siche, dovute al terremoto, e quelle interiori, che hanno mille cause e, spesso, scarsi rimedi… Del resto, eventi come quello che abbiamo vissuto (e stiamo ancora vivendo, nei suoi effetti collaterali) hanno il potere di farci sentire come siamo davvero: minuscoli, precari, ma anche incredibilmente unici e irripetibili. Francesco ha dimostrato di saperlo bene. Non solo le maniche, si tratta di rimboccarsi anche e soprattutto il cuore, riflettere su quanto la nostra terra prova a dirci con avvenimenti simili, accompagnare l’esigenza della ricostruzione materiale con i primi passi di una ricostruzione interiore, ecclesiale, comunitaria. Di ripensare radicalmente il nostro modo di essere comunità, o forse di riprendere a esserlo davvero. E se, alle popolazioni colpite dal sisma, si ripete continuamente di resistere e di tener duro (da noi si dice tgnir a bota, l’abbiamo fatto e continueremo a farlo), forse però la virtù più adatta in circostanze simili è quella della resilienza: perché resiliente è persona o materiale in grado di tornare alla condizione originaria, dopo una prova d’urto. E di lì, guardare avanti: nonostante tutto. Averlo fatto, domenica scorsa, in compagnia di un pontefice dal cuore e dal volto umani ha avuto un gusto particolare: perché, si sia cattolici o meno, e parecchi in Piazza Martiri probabilmente non lo erano, è stata l’ennesima prova che questo papa è in primo luogo un cristiano, che a Gesù ci crede davvero. Ed è convinto che Gesù sia venuto al mondo non per giudicare o condannare l’umanità, ma per mostrarle una strada possibile per liberarci dalle nostre paure ed educarci a gestire le nostre, più o meno profonde, cicatrici.
Brunetto Salvarani