Es 24,3-8; Sal 115; Eb 9,11-15; Mc 14,12-16.22-26
Al mattino della vigilia di Pasqua gli ebrei andavano al tempio per immolare l’agnello e la sera si riunivano in casa per celebrare il rito pasquale, mangiando l’agnello, il pane azzimo e le erbe amare e bevendo quattro calici di vino. Questa liturgia si ripete ancora oggi, dopo quasi 33 secoli dalla liberazione del popolo dall’Egitto. Ma nel 70 d.C. il tempio di Gerusalemme fu distrutto e da allora l’agnello viene sacrificato solo nelle case.
Quando Gesù celebra l’ultima cena, pur essendo nel tempo pasquale, non fa riferimento all’agnello. Non c’è più bisogno dell’agnello, perché è lui stesso l’Agnello immolato; e non c’è più bisogno del tempio, perché il vero tempio, in cui avviene l’offerta, è ormai la croce. Per questo il Vangelo di Giovanni fissa la morte di Gesù in croce proprio nell’ora in cui al tempio si sacrificavano gli agnelli.
Mentre tralascia il rito dell’agnello, Gesù chiede di mantenere il rito del pane e del vino; però con un significato nuovo. Il pane non lievitato, nella liturgia ebraica, rievoca la fretta (cf. Es 12,11): ricorda che il popolo in Egitto non ebbe il tempo di attendere la lievitazione del pane, perché il passaggio del Mar Rosso era imminente. Gesù invece dà al rito del pane un altro senso: “questo è il mio corpo”; non è più il simbolo di un’urgenza, ma di una presenza; non è più un richiamo alla mancanza di tempo, ma è un richiamo alla presenza dell’eterno nel tempo. Il pane degli schiavi fuggiaschi, che scappavano dall’Egitto, è diventato il pane dei pellegrini fiduciosi, che camminano verso il regno.
Ma anche il rito del vino acquista un significato nuovo. Nella liturgia ebraica i quattro calici evocano festa, gioia, allegria – dopo il quarto calice è normale un po’ di allegria – mentre Gesù dà al calice un senso sacrificale: “il mio sangue dell’alleanza”. Il richiamo è a Mosè che, nell’episodio raccontato nella prima lettura, sigilla il patto tra Dio e il popolo con il sacrificio di giovenchi, spargendo la metà del loro sangue sull’altare, simbolo di Dio, e l’altra metà sul popolo. Era un vero “patto di sangue”: faceva circolare la stessa vita – il sangue per gli ebrei è la vita – tra Dio e il popolo. Ecco perché Gesù dice: “il mio sangue dell’alleanza”; lui è nello stesso tempo altare e popolo, Dio e uomo, e per questo realizza davvero l’alleanza in sé stesso. Il vino eucaristico esprime allora il lato più costoso dell’amore; se il pane dice che l’amore vero è presenza e alimento, il vino dice che l’amore vero è offerta scomoda, tutt’altro che indolore. Ogni gesto di amore autentico costa sempre un po’ di sangue.
Il pane e il vino, mantenuti da Gesù nel rito pasquale, hanno il sapore della vita quotidiana, casalinga, domestica. I doni che offriamo all’altare, come diremo tra poco, sono “frutto della terra e del lavoro”. Lì dentro, cioè, c’è anche il nostro contributo, c’è la nostra collaborazione. Infatti il terreno non produce pane, ma grano; la vite non produce vino, ma uva. Il Signore ci offre, in natura, un materiale grezzo, che richiede poi la nostra attività per diventare pane e vino. La lavorazione del grano e dell’uva, non solo tra i popoli antichi ma anche da noi, almeno fino a qualche decennio fa, coinvolgeva la famiglia. Gli uomini seminavano il grano e potavano le viti; tutta la famiglia poi all’inizio dell’estate raccoglieva il grano e lo macinava e tra l’estate e l’autunno raccoglieva l’uva e la pigiava. Mietitura e vendemmia erano come due grandi riti domestici. Le donne in casa impastavano la farina e cuocevano il pane e gli uomini torchiavano i grappoli, travasavano il mosto nei tini e, al tempo opportuno, lo sistemavano nelle anfore o, più recentemente, nei fiaschi e nelle bottiglie.
Lavoro e famiglia, i grandi doni che ci rendono collaboratori del Creatore, si concentrano in quel pane e in quel vino e nell’offertorio si caricano di un senso nuovo: sono il nostro “sacrificio spirituale”. Quel pane che diventerà corpo del Signore, raccoglie i nostri gesti d’amore, i nostri legami riusciti, le nostre relazioni più belle; in una parola, il nostro corpo; San Paolo invita i battezzati ad offrire i loro corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (cf. Rom 12,1). E quel vino che diventerà sangue del Signore raccoglie le nostre fatiche, le sofferenze di ogni giorno, le piccole e grandi croci quotidiane.
Per il secondo anno di seguito, a causa della pandemia, offriamo al Signore un pane e un vino particolarmente densi di umanità: il pane si carica dei tanti germi di generosità espressi da un esercito silenzioso di persone che hanno saputo farsi prossime ai più deboli e fragili, anche nelle nostre parrocchie, anche tra di noi. Il vino si carica dei tanti dolori che hanno colpito le nostre famiglie, gli anziani, i lavoratori, gli adolescenti, i bambini. Nel pane le gioie, nel vino le sofferenze: i due volti dell’amore; nel pane le risorse, nel vino le fatiche; nel pane i legami riusciti, nel vino i legami feriti. Tutta la nostra vita quotidiana, nelle sue esperienze gratificanti e in quelle fallimentari; tutta la nostra esistenza, senza esclusione, entra in quel pane e in quel vino e attende dal Signore di essere salvata. Se non fosse lui, con il suo corpo e il suo sangue, ad investire i nostri doni, ad assumerli e trasformarli, le nostre offerte resterebbero tentativi infruttuosi e deprimenti. Solo lui può dare senso pieno al nostro lavoro, alla vita domestica, alle relazioni, alle gioie, agli affanni. Madre Teresa di Calcutta disse un giorno, rispondendo ad una domanda sul segreto della sua dedizione: “è l’eucaristia che mi dà la forza per servire i poveri e chinarmi con amore sulle loro piaghe”. Il corpo e sangue del Signore sono la sorgente più abbondante dell’amore. Senza il suo amore non possiamo far nulla (cf. Gv 15,15); solo con lui la nostra vita può diventare dono gradito a Dio e prezioso al prossimo.
+ Erio Castellucci