“Suicidio e aiuto al suicidio nella dimensione morale”

Commento del vescovo Erio Castellucci alla sentenza della Corte Costituzionale n.242/2019 sul “caso dj Fabo”,

Il vescovo Erio Castellucci era intervenuto a commento della sentenza della Corte Costituzionale n.242/2019 sul “caso dj Fabo”, con un’ampia e articolata relazione sul tema “Suicidio e aiuto al suicidio nella dimensione morale” ad un evento dell’Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Modena – Sezione di Scienze Morali, Giuridiche e Sociali (7 maggio 2021). Questo il testo integrale della relazione.  

Suicidio e aiuto al suicidio nella dimensione morale

  1. L’argomento, come tutti sanno, è complesso, intricato e delicato. E questo mi suggerisce fin dall’inizio un approccio articolato e rispettoso. L’ottica dalla quale mi è stato chiesto di considerare la questione – quella morale e, nello specifico, l’etica cattolica – comporta in partenza, direi come norma morale fondamentale, il rispetto delle persone: sia di quelle che la pensano diversamente da ciò che proverò a sostenere, sia soprattutto di quelle che effettivamente sono coinvolte nelle situazioni di “suicidio e aiuto al suicidio”, ossia le persone che decidono di togliersi la vita, i loro familiari e amici, i medici e gli operatori sanitari o chi si presta ad aiutare l’atto del suicidio. Personalmente, proprio per formazione e convinzioni morali, rifuggo – anche nei confronti più aperti – dalla facile polarizzazione, che diventa qualche volta reciproca accusa, trascurando tutte le necessarie sfumature in temi così complessi. Prendo quindi dall’inizio le distanze da un linguaggio “estremo”, al quale purtroppo non si è rinunciato nei famosi casi Welby, Englaro e Antoniani, tra chi da una parte levava accuse di assassinio a chi decideva di mettere fine alla propria o altrui vita e dall’altra parte imputava crudeltà a chi chiedeva invece di evitare questo esito. Non è solo la convinzione che il dialogo sia l’unica strada capace di far progredire una civiltà; né, tantomeno, la tiepidezza o l’inclinazione al compromesso; è invece il desiderio di onorare il grande e fondamentale precetto etico, fondato sulla Bibbia, di rispetto per il prossimo – Gesù arriva addirittura a chiedere di amare il nemico – che giustifica il tentativo di ragionare senza offendere e senza assolutizzare.
  1. Con questa premessa sono già entrato in argomento, perché la questione del suicidio, comunque la si pensi, tocca proprio il rispetto della persona e della sua dignità. Credo che su questa base tutti possiamo concordare. Le distinzioni cominciano quando cerchiamo di dare contenuto al tema della “dignità”. Esistono situazioni nelle quali non sussiste in merito alcun dubbio, dal punto di vista etico: è evidente, ad esempio, che privare dell’alimentazione una persona, quando il cibo è disponibile, costituisce un attentato alla dignità umana; e tutti sono d’accordo, se questo si verifica in una situazione normale; ma se la persona è sottoposta ad alimentazione e idratazione artificiale, ci si distingue tra chi ritiene che questa sia nutrizione e chi invece ritiene che sia trattamento medico. E si potrebbero fare innumerevoli esempi. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1948, ha indicato nei suoi 30 articoli un elenco, appunto, di “diritti” che rispondono al desiderio, dichiarato nel Preambolo, di corrispondere alla dignità e al valore della persona umana. Lo sfondo storico di questo basilare dettato etico e giuridico – possiamo dire che questa Dichiarazione fu la prima vera tavola dei diritti umani universali – fu la reazione alla tragedia della seconda guerra mondiale, del nazismo e della Shoah. Analogamente la Costituzione italiana sorse dalle ceneri del fascismo e dai ruderi della guerra. In questi documenti epocali, che condensano efficacemente diverse visioni della vita – alla nostra Costituzione contribuirono con pari efficacia i social-comunisti, i liberali e i cattolici – la persona umana non è vista semplicemente come individuo a cui assicurare dei diritti, ma nemmeno solo come parte di uno Stato che impone dei doveri; è vista piuttosto come “crocevia” tra individuo e collettività, come essere-in-relazione, la cui consistenza individuale è intangibile, e questo fonda la sua libertà; e la cui natura relazionale è costitutiva, e questo fonda i doveri basati sulla uguaglianza, ossia sulla giustizia. Per questa doppia dimensione della persona, individuale e relazionale, la Costituzione ha riconosciuto l’importanza dei gruppi sociali, i cosiddetti “corpi intermedi”, come luoghi di rispetto e crescita della persona; luoghi di relazione e di fraternità che siano in grado di contrastare sia la deriva individualista sia quella collettivista. Ho richiamato le tre parole lanciate dalla Rivoluzione francese, libertà, uguaglianza e fraternità perché è un trinomio che unisce diverse culture e visioni della vita, religiose e non religiose. E molti oggi riconoscono che questo trinomio condensa i grandi valori etici ispiratori delle democrazie contemporanee; e riconoscono che nessuno di questi valori va sganciato dagli altri, perché la libertà svincolata dal resto favorisce la legge del più forte, l’uguaglianza lasciata a se stessa rischia di appiattire una società e la fraternità sganciata dagli altri due valori si stempera in un vago sentimentalismo.

E dentro lo spirito della nostra Costituzione, carica anche per i cattolici di valori di riferimento imprescindibili e di carattere “personalista”, si muove in Italia ogni serio dibattito pubblico di carattere etico. Conservare il dettato costituzionale come base del confronto impedisce da una parte la pretesa di estensione della morale cattolica (come di ogni altra morale) a tutto l’arco delle scelte normative: infatti in una società pluralista la legislazione dovrà rispondere, secondo i principi democratici, ai criteri di convergenza della maggioranza nel rispetto possibile delle minoranze; e i cattolici, magistero compreso, devono entrare nell’arena del dibattito pubblico, sostenendo con argomenti razionali le loro proposte; e dall’altra il riferimento alla Costituzione impedisce la pretesa di esclusione della componente cattolica dal confronto pubblico, con la motivazione che la religione è un fatto privato e che le argomentazioni delle persone religiose non hanno consistenza razionale. Per i cristiani, la fede non è direttamente spendibile sul piano del confronto pubblico, ma è l’ispirazione che forma le idee (come anche il non credente o il credente in altre fedi matura le idee all’interno della propria visione: non esiste una posizione totalmente oggettiva), le quali devono essere portate avanti con argomentazioni razionali. Per questo non userò, ad esempio, l’argomento della “sacralità della vita” (per quanto ne sia personalmente convinto), ma piuttosto quello di “dignità intrinseca” della vita. La fede rimane sul piano delle motivazioni ma non può entrare direttamente in campo sul piano delle argomentazioni. Ora, se il confronto si muove a partire dalla Costituzione e dai valori che essa incarna, sarà di certo costruttivo, “laico”, rispettoso: pur nella difformità delle convinzioni, si lascerà a tutti i soggetti sociali, Chiesa inclusa, la possibilità di esprimere con argomenti razionali ciò che ritengono un apporto costruttivo al bene comune.

  1. Le sentenze della Corte costituzionale, per definizione l’organo interpretativo supremo della Costituzione, possono essere affrontate legittimamente anche in ottica morale, quando riguardano questioni di rilevanza etica e non solo tecnica, come la n. 242/2019, che, prendendo spunto dal caso configurato dalla vicenda del suicidio di Fabiano Antoniani, con l’aiuto del dott. Marco Cappato, ha dichiarato illegittima in quella e simili circostanze l’applicazione dell’art. 580 del Codice Penale, che stabiliva, senza ulteriori distinzioni, la punibilità dell’aiuto al suicidio. La Corte ha precisato che non è punibile l’aiuto al suicidio nei confronti di chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che ella reputa intollerabili, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, con il parere previo del comitato etico territorialmente competente”. La complessità della sentenza rispecchia la complessità della situazione, carica di sofferenza, sulla quale si esprime: anche per questo ogni approccio etico deve muoversi “in punta di piedi”, con tante distinzioni e con toni rispettosi. Su queste situazioni umanamente così dolorose ogni giudizio netto appare inopportuno e potrebbe essere perfino offensivo. Cerco dunque di muovermi non sulle vicende in sé, ma sulle condizioni richieste dalla Corte, che sono sostanzialmente quattro. 1) Che cosa comprendono esattamente i “trattamenti di sostegno vitale”? Il tipo di trattamento varia molto da persona a persona, a seconda della condizione sanitaria: ad es. la dialisi è trattamento di sostegno vitale per un malato di reni. 2) Il concetto di “patologia irreversibile” che cosa implica? Anche un tumore inguaribile è irreversibile, ma potrebbe concedere una vita ancora di alcuni anni, se sussistono le condizioni: le cure palliative precoci, che a partire dagli USA si stanno estendendo in tutto il mondo, riescono ad ottenere risultati importanti, non solo in termini di prolungamento della vita, ma anche e soprattutto in termini di accompagnamento dignitoso dei malati e dei familiari. 3) Anche le “sofferenze fisiche e psicologiche che (la persona) ritiene intollerabili” sono difficili da determinare, perché può darsi che la misura – specialmente delle sofferenze psicologiche – cambi molto da persona a persona e che ad esempio una fase depressiva che potrebbe essere superata porti a decisioni irreversibili e definitive. 4) E infine il “proposito libero e autonomo” è piuttosto difficile da valutare, come dirò meglio. Raggruppo infatti le riflessioni che seguono attorno al trinomio libertà, uguaglianza e fraternità.
  1. Sulla libertà, come sappiamo, sono state scritte milioni di pagine. Mi fermo solo alla libertà a partire dalla nostra Costituzione. L’art. 32, spesso richiamato nelle tematiche legate al fine-vita, recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Questo articolo, che riporta una delle quattro ricorrenze della parola “persona” presenti nella nostra Costituzione, fu richiesto, con una formulazione leggermente diversa, da due costituenti cattolici, Moro e Leone, che volevano scongiurare le pratiche eugenetiche messe in atto dai nazionalsocialisti, con esiti spesso eutanasici. Lo scopo della Costituzione è quello di evitare la violazione della volontà del paziente in relazione alle cure che gli vengono – o potranno essergli – proposte. Non si parla dunque di libera scelta di morire – l’espressione non viene mai avallata da nessun testo giuridico italiano e, per ora, nemmeno europeo – ma di libertà di rifiutare cure che il malato ritiene irrispettose della sua dignità. Anche in questo caso, certo, ci sarebbero tante domande da fare – una per tutte, piuttosto classica, riguarda la trasfusione di sangue per i testimoni di Geova – ma ci porterebbero troppo lontano. Piuttosto, sulla libertà, va detto che la nostra Costituzione non legittima ogni tipo di libertà, non ammette una libertà assoluta. L’art. 13 afferma giustamente che “la libertà personale è inviolabile” e che solo precise norme di legge possono limitarla (ce ne siamo ben resi conto in questo tempo di pandemia); ma non è, appunto, “assoluta”. Ad esempio, proprio sulla base dei principi espressi nella Costituzione, in Italia sarebbe illegittimoqualsiasi auto-limitazione della propria integrità personale, come l’atto di farsi volontariamente schiavo di qualcuno, oppure qualsiasi azione di commercio di organi del proprio corpo. Non vige quindi un’autodeterminazione”assoluta”, ma “relativa” al bene proprio e altrui, equilibrati in modo da salvaguardare la “persona”, che è – lo ripeto – individuo relazionale; la sua libertà quindi si gioca in un rapporto tra i diritti che l’individuo rivendica e i doveri che la società richiede. Se fossimo solo individui slegati, non ci sarebbero limiti ai nostri diritti e potremmo godere di autonomia assoluta; se fossimo, al contrario, solo elementi di una collettività superiore, allora non avremmo alcun diritto se non quelli stabiliti dalla collettività stessa. Poiché siamo individui in relazione, “persone”, la nostra libertà è legittima nella misura in cui rispetta anche il bene comune, cioè le altre persone.

Ora, la libertà di scegliere se e quando porre fine alla propria esistenza, se lasciata completamente al singolo, rischia di essere fortemente condizionata, anziché “libera e autonoma”; condizionata dal clima culturale, che a volte diventa anche clima familiare, che, quanto più è efficientistico, tanto più è capace di emarginare e far sentire inutili le persone non produttive; condizionata dalla fragilità del momento che la persona sta attraversando, che potrebbe determinare una decisione in una certa fase e un’altra in una fase diversa, ma che nel caso della scelta di morire sarebbe ovviamente irreversibile. L’espressione di solito utilizzata dai giuristi e dai bioeticisti è: “evanescenza del consenso”, che esprime bene i condizionamenti possibili.

  1. Con queste ultime osservazioni entriamo nel campo dell’uguaglianza, richiamata anche dalla sentenza della Corte laddove esprime la differente condizione del malato che può assumere da solo il farmaco letale da quello che invece deve essere aiutato per morire, è evidentemente un principio costituzionale molto importante, affermato fino dagli artt. 2 e 3 della Costituzione e applicato costantemente ai diversi ambiti di vita. Per quanto riguarda il nostro argomento, credo che l’uguaglianza vada richiamata anche in altre direzioni. La prima è connessa alla famosa teoria del “piano inclinato”: una volta che si apre una fessura, allargando le maglie della legalità, a poco a poco passeranno da quella fessura tante altre situazioni, che diventeranno vere e proprie “porte”. Nonostante spesso venga messo in questione, nel dibattito, il “piano inclinato” a me pare una realtà documentabile. Ovviamente non va agitato in maniera apocalittica, traendo subito conseguenze estreme da ogni fessura che si apre – non mi appassiona il frequente richiamo ai casi-limite documentati in Olanda, uno dei paesi in cui l’eutanasia è legale – come se necessariamente si dovesse scivolare verso il baratro. E tuttavia, come dicevo, mi pare documentabile, a partire dal fatto che una legge, quando ha una valenza etica, non solamente esprimeuna visione della vita umana, ma anche influenza la cultura. Un comportamento lecito legalmente diventa facilmente anche, per molti, un comportamento lecito moralmente; si potrebbe documentare questo passaggio a proposito del divorzio, dell’aborto, della fecondazione assistita e così via. La legge, comunque venga formulata, crea mentalità, “educa”, ha una valenza socialmente pedagogica. Questo mi sembra difficile da negare, e lo dico anche in positivo: ad esempio le norme sul rispetto dell’ambiente, compreso il divieto di fumare nei luoghi pubblici, e tante altre leggi, come quelle che allargano le possibilità delle persone diversamente abili, stanno influenzando beneficamente i comportamenti e stanno creando una coscienza etica più raffinata. Queste leggi, in altre parole, operano un “livellamento” culturale – per questo vi accenno nel contesto dell’uguaglianza – che può andare in direzione positiva o negativa, ma che va tenuto in conto. Un’altra osservazione riguarda la possibilità che vi siano discriminazioni: ma lo dico in senso inverso rispetto alla Corte, intendendo discriminazioni tra chi ha maggiori possibilità relazionali e chi invece vive relazioni povere, è emarginato e solo. La solitudine o, al contrario, la ricchezza di relazioni, determina anche la scelta di continuare a vivere o meno; la solitudine toglie energia al desiderio di vivere. Sarebbe quindi opportuno impegnare maggiori risorse pubbliche nel contrastare la solitudine, attraverso il sostegno e la promozione di forme di prossimità e di assistenza più capillari, intervenendo soprattutto là dove la solitudine è più forte, anziché favorire rapide soluzioni di rinuncia alla vita che potrebbero essere facilitate da una sensazione di inutilità personale e sociale.
  1. E con queste osservazioni siamo al terzo grande valore, la fraternità. Per non cadere nel pericolo di farne una dimensione puramente sentimentale, richiamerei qui la forma di fraternità che riguarda più da vicino il fine-vita: l’alleanza tra il malato, gli eventuali familiari e i medici. Una “triplice alleanza” che fino a poco tempo fa era normalmente anche una “triplice intesa” e che ora però rischia in parte di incrinarsi. La possibilità dell’obiezione di coscienza da parte dei medici salvaguarda certamente la loro libertà; ma se non si sottolinea meglio la necessità – effettiva, non sulla carta – che i medici intervengano nella decisione dei pazienti (e questo vale anche per la scelta delle cure), il rischio, segnalato dai medici stessi, è che la loro professione venga ridotta ad una prestazione tecnica, deputata ad eseguire semplicemente la volontà del paziente. Esiste così il rischio di alterare il rapporto medico-paziente. Occorrerebbe, per quanto possibile, evitare di emarginare il ruolo dei medici, per i quali fino a poco tempo fa si spendeva volentieri la parola “fiducia”; il “medico di fiducia” era infatti il punto di riferimento del malato e della sua famiglia e ogni decisione veniva assunta a partire dal suo fondamentale parere. Ora, i medici hanno già in mano i criteri per discernere, caso per caso, se una situazione si configura come accanimento terapeutico o meno; non dico che il loro giudizio sia insindacabile e infallibile: esistono tante situazioni-ombra, nelle quali è molto difficile valutare obiettivamente. Dico solo che i criteri esistono. Uno dei versanti sui quali si registra una sostanziale convergenza etica è la necessità di evitare l’accanimento terapeutico o clinico, favorendo invece le cure palliative e le terapie del dolore. Così si esprime l’attuale Catechismo della Chiesa Cattolica: “L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’«accanimento terapeutico». Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente” (n. 2278). “Anche se la morte è considerata imminente, le cure che d’ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate” (n. 2279). La legge sulle cure palliative non gode ancora di risorse adeguate; e sarebbe una strada più degna e meno accidentata rispetto a tutte le altre.
  1. Concludo esprimendo un’ultima convinzione personale: legiferare a partire dai casi-limite non è, secondo me, il modo migliore per affrontare le situazioni e dare linee di orientamento. La legge, come anche l’etica, non dovrebbero pretendere di intervenire in maniera determinante in ogni situazione; la casistica, come sappiamo, ha parecchi limiti, perché potenzialmente i fatti sono innumerevoli e molto più variegati delle leggi positive e morali.  Si dovrebbero piuttosto offrire i criteri di valutazione, tenendo conto dei diversi soggetti e muovendosi entro le prospettive della Costituzione, in tanti casi non esistono soluzioni nette, ma ci sono dei “cumuli di probabilità”. Si dovrà comunque sempre tenere presente, nei casi dubbi, il grande “principio di precauzione”, diversamente formulato nei diversi campi (diritto, economia, politica, sanità) ma che si potrebbe riassumere così: davanti a una situazione rischiosa, quando i dati disponibili non consentono una valutazione completa, è bene assumere un atteggiamento di cautela piuttosto che agire causando effetti non prevedibili.