Il nome di battesimo italiano, che porta anche da religiosa, e l’appartenenza ad una congregazione intitolata a Santa Caterina da Siena, patrona d’Italia, bastano a dire il legame di affetto che unisce suor Silvia al nostro Paese. “Mio zio era emigrato in Italia ed è per lui se mi hanno chiamata così” spiega sorridendo la giovane religiosa irachena, originaria della città di Alqosh, dove è cresciuta in una famiglia appartenente alla Chiesa cattolica caldea. “Sono entrata nel 2001 nel convento delle Domenicane di Santa Caterina da Siena a Mosul – racconta – e dal 2006 ho studiato presso le consorelle a Pisa, Firenze e Roma. Mi sono sempre sentita accolta dagli italiani e quando il Vescovo Francesco Cavina è giunto da noi ad Erbil, è stato per me come se fosse arrivata la mia famiglia”.
Suor Silvia, dopo gli anni trascorsi in Italia, quale situazione ha trovato in Irak?
Nel novembre 2013 sono stata inviata a Tilkef, nella zona a nord di Mosul, dove ho insegnato nella scuola gestita da noi suore e frequentata da alunni in maggioranza di religione islamica. Già allora avevamo molti problemi con i musulmani, ma la situazione è esplosa nel giugno 2014, con il dilagare dell’Isis. Nella piana di Ninive hanno tolto acqua e luce, spari continui fra i miliziani e l’esercito, violenze, mentre i cristiani, a cui si intimava di andarsene o di convertirsi all’islam, altrimenti sarebbero stati uccisi, hanno iniziato a scappare. Noi suore siamo rimaste nella nostra casa, il sacerdote ci portava tutto. Per andare in chiesa, a pochi metri di distanza, prendevamo l’auto per paura di camminare in strada. Due consorelle sono state sequestrate e rilasciate, per fortuna senza aver subito violenza, dietro pagamento di un grosso riscatto. Ad un certo punto la Madre generale ha fatto trasferire le suore anziane ad Erbil in Kurdistan. Si sperava che l’Isis non arrivasse da noi, invece…
Cosa può raccontarci della drammatica fuga, condivisa con 120 mila cristiani della piana di Ninive?
Il 1 agosto 2014 ci siamo spostate in un altro paese, il nostro sacerdote ed alcuni giovani hanno invece voluto rimanere. Il 3, la Madre generale ha chiamato dicendo che dovevamo andarcene perché la situazione era precipitata. Il 5 è stato ucciso il giovane diacono, raggiunto dalle pallottole in realtà destinate al nostro sacerdote. Il 6, alle 11 di notte, si è cominciato a sparare e hanno detto che tutti i cristiani dovevano scappare perché l’Isis era entrato a Qaraqosh e a Tilkef e in altre zone. E’ stata una fuga in massa, in mezzo agli spari, terrorizzati, tutto così rapido che tanti sono fuggiti senza prendere nulla. Sapevamo quello che era successo in quei giorni agli yazidi, 400 giovani uccisi e 5000 ragazze vendute come schiave. Purtroppo, lo stesso è successo ad un centinaio di donne cristiane, fra cui alcune che conoscevamo, perché i mariti non hanno voluto scappare…
Come siete riuscite ad andare avanti? Sappiamo che quindici suore sono morte a causa della paura e delle fatiche…
E’ stata un’esperienza durissima, eravamo talmente sotto shock che non riuscivamo a renderci conto… Siamo andate a nord, in Kurdistan, dove ci hanno accolto le consorelle. Chi ha potuto ha chiesto aiuto ai famigliari, gli altri hanno dormito per strada, nei parchi, in chiesa. Poi, grazie al Patriarca caldeo, si è messo a disposizione di noi suore il Seminario. Siamo rimaste con la nostra gente, cercando di portare conforto e sostegno. L’unica istituzione che ci ha aiutato, e lo dico con orgoglio, è stata la Chiesa cattolica, in particolare Aiuto alla Chiesa che Soff re e Missione Cattolica. Ci hanno donato case prefabbricate, cibo, farmaci, prodotti di prima necessità e vestiario, provvedendo anche a pagare metà del canone per quanti erano in affitto. A Duhok in Kurdistan ho lavorato come responsabile, insieme ad un sacerdote assiro, in una clinica fondata da Missione Cattolica, dove abbiamo curato i profughi senza fare distinzioni tra cristiani, musulmani e yazidi.
Il passo successivo è stato il trasferimento ad Erbil. Qual è oggi il suo servizio?
Da Duhok la Madre generale ci ha inviate ad Erbil nella scuola, completamente gratuita, sorta in case prefabbricate con il contributo di Aiuto alla Chiesa che Soffre. E’ frequentata attualmente da 600 ragazzi cristiani, delle elementari e di prima e seconda media, fi gli dei profughi. Qui è venuto a visitarci il Vescovo Cavina. Il lavoro che facciamo non è soltanto insegnare ai bambini, ma cercare di aiutarli a superare i traumi. Sono terrorizzati da tutto: è successo, ad esempio, che, essendo stati per tanto tempo in mezzo alle bombe, sentendo tuoni e lampi, si siano messi a gridare “è arrivato l’Isis”. Oppure sfogano il loro malessere con atteggiamenti di aggressività… E’ un’opera di educazione molto impegnativa, in un contesto tuttora di grande precarietà.
Ora che la piana di Ninive non è più sotto il controllo dell’Isis, sperate di rientrare nella vostra terra?
C’è chi vorrebbe tornare, anche perché non riesce più a pagare l’affitto, e chi invece non vuole perché non crede che l’Isis si sia veramente ritirato. Al di là di questi due gruppi, il dato di fatto è che è stato distrutto tutto, le case non ci sono più, ovunque è pieno di macerie, l’ambiente è inquinato da fumi tossici… Tornare significa inoltre reinserirsi in una realtà in cui i musulmani che sono rimasti stavano dalla parte dell’Isis e questo crea grosse difficoltà dal punto di vista delle relazioni. Senza contare, infine, la questione complessa dell’indipendenza del Kurdistan. Il futuro davanti a noi è pieno di incertezza, e, a quanto sento dire, nessuno dei cristiani ritornerà più a Mosul.
Come è possibile leggere alla luce della fede l’esperienza terribile che avete vissuto?
La fede di tutti noi è stata duramente messa alla prova. Al catechismo i ragazzi si chiedono dov’è Dio e perché ha permesso tutto questo. Anch’io quando sono triste e arrabbiata mi “sfogo” con Gesù: “Perché ci hai creati in questa terra? Perché dobbiamo soffrire tanto?”. Poi, sento rinascere in me la forza della fede che mi dice che il Signore è sempre con noi, lavora “sotto sotto” e con giustizia. Perciò ai ragazzi dico che Dio ha fatto per noi il miracolo più grande, ci ha liberati dall’Isis e ci protegge continuamente, anche se siamo peccatori.
In che modo possiamo aiutarvi noi, vostri fratelli della Diocesi di Carpi?
La Chiesa non ci ha mai fatto mancare gli aiuti materiali, ma questi non fanno i miracoli. Li fa solo Gesù, per questo è importantissima la preghiera, sostenuta da quella fede che è in grado di spostare le montagne. La solidarietà concreta, dunque, è preziosa, ma ancora di più lo è la vostra preghiera p