A Carpi la celebrazione in ricordo di don Zeno Saltini e delle radici di Nomadelfia. L’omelia del vescovo Castellucci: “Ricordare don Zeno nella domenica della parola di Dio assume un fascino speciale: ci rimanda ad una parola che diventa vita, che si incarna nei gesti, che si fa denuncia vibrante perché nasce da un cuore infatuato del Vangelo”
Domenica 23 gennaio nella Cattedrale di Carpi il vescovo Erio Castellucci ha presieduto la celebrazione eucaristica nella ricorrenza di importanti anniversari che riguardano il sacerdote carpigiano don Zeno Saltini e l’opera da lui fondata Nomadelfia: il 60° della “seconda prima messa” che lui volle proprio celebrare il 22 gennaio nello stesso giorno della fondazione di Nomadelfia nel 1933 (nata a San Giacomo Roncole di Mirandola, da lì si trasferì nell’ex campo di concentramento di Fossoli per poi stabilitasi in provincia di Grosseto). Alla celebrazione era presente una delegazione di Nomadelfia guidata dal presidente Giancarlo.
Il vicario generale monsignor Gildo Manicardi: “segno luminoso all’inizio del cammino sinodale”
“Il sogno di Don Zeno fu che il suo sacerdozio generasse un popolo nuovo fondato sul Vangelo, la fraternità e la giustizia, con la presenza originalissima delle mamme di vocazione, con la prospettiva di famiglie in cui gli sposi – spesso già al momento del matrimonio – si presentavano all’altare con ragazzi già accolti come propri figli. Del resto – ha affermato monsignor Gildo Manicardi, vicario generale della Diocesi di Carpi introducendo le motivazioni della celebrazione – era quello un gesto che Don Zeno stesso aveva compiuto nella sua prima Messa qui in cattedrale, portando con sé Barile, un giovanetto che aveva fatto uscire dal carcere minorile. Don Zeno descriveva questa sua scelta in modo che ci lascia senza parole: «La mia messa è quella lì: sposo la Chiesa, le do un figlio, non un assistito». Ciò che allora veniva indicata come un’utopia, adesso è da considerare come una profezia, che ha preso carne nella terra emiliana, dal grembo della Chiesa di Carpi. Ci possiamo chiedere: quale luce questo potente sogno può dare ad una Chiesa che si è messa in cammino sinodale perché l’ascolto dello Spirito sia più schietto e più appassionato?”
L’omelia del vescovo Erio Castellucci: “Don Zeno è stato una specie di Vangelo ambulante. Si è avvicinato molto a Gesù nell’identificazione tra parola e vita”
“Siamo stati dei lazzaroni! Noi siamo dei falliti! Siamo stati dei delinquenti!”. A qualcuno, a chi l’ha conosciuto, sembrerà di sentire la voce stessa di don Zeno. Questa è una sola delle tante denunce, pronunciate con foga e quasi gridate in un’omelia del 1974. Parole forti, con le quali il fondatore di Nomadelfia marcava un’intera generazione, la sua, colpevole di avere provocato guerre e distruzioni. Ma sono parole che valgono anche per noi, per tutti, in ogni epoca.
Non sono parole al vento, perché provengono dalla bocca di uno che si è guadagnato sul campo una credibilità evangelica. Ricordare la figura di don Zeno nella domenica della parola di Dio, voluta da papa Francesco, assume un fascino speciale: ci rimanda ad una parola che diventa vita, che si incarna nei gesti, che si fa denuncia vibrante perché nasce da un cuore infatuato del Vangelo, innamorato di Gesù di Nazareth.
E proprio la sinagoga di Nazareth, secondo il Vangelo di Luca, è il luogo dal quale prende avvio la predicazione di Gesù. Nella liturgia della parola che ogni sabato si celebrava – e si celebra – nelle sinagoghe, tutti gli uomini adulti potevano prendere in mano un rotolo delle Scritture ebraiche, leggerlo e commentarlo. Tanti altri, dunque, prima di Gesù, avevano compiuto gli stessi gesti: leggere la parola scritta e proporre un’interpretazione orale. Queste due dimensioni della parola, mediate dalla pergamena e dalla voce, non richiedevano doti speciali. Quello che resta unico, letteralmente inaudito, è ciò che segue: Gesù dice che la Scrittura appena letta “oggi si è compiuta”. Dice ai concittadini che quella parola non è rimasta incisa sulla carta e nemmeno si è accontentata di trasferirsi dalla sua bocca alle loro orecchie; dice che quella parola si è resa carne in lui. Anche l’evangelista Giovanni lo dirà, alla sua maniera, all’inizio del Vangelo: “il Verbo si è fatto carne”. Nessun altro può dirlo. Io posso leggere o pronunciare una parola, la posso scrivere, ma non posso dire che “sono” la parola. L’identità tra parola scritta, detta e vissuta è una prerogativa di Gesù. In lui non c’è distanza tra ciò che è scritto, ciò che dice e ciò che fa.
In noi, invece, questa distanza rimane. Noi leggiamo la parola di Dio scritta, la predichiamo, proviamo a spiegarla, ma non la incarneremo mai perfettamente. Nemmeno i santi ci riescono: si avvicinano, arrivano molto in alto, ma resta sempre uno spazio di conversione; la distanza tra la parola di Dio e la mia vita – distanza che si chiama peccato – resta sempre. Da questo punto di vista ha ragione don Zeno: “siamo dei falliti”. Eppure la stessa parola di Dio ci assicura che il Signore ci ama ugualmente, perché lui ama anche i lazzaroni, i falliti, i delinquenti. È venuto per loro, per noi. Quella parola che Gesù dice compiuta “oggi” non è una parola qualsiasi; è tratta dal libro di Isaia, in un passo riguardante il profeta che Gesù applica a se stesso. Lì proclama che il dono dello Spirito gli dà un’energia incredibile, per portare ai poveri il lieto annuncio, ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, agli oppressi la libertà. Questo è il programma di Gesù, al quale resterà fedele letteralmente. Davvero in lui la parola non resta sulla carta ma diventa carne. Proprio perché va in cerca della carne fragile, provata, scartata (gli “scartini” di cui parlava don Zeno); Gesù dà carne alla parola. Se si fosse comportato da grande saggio – ce n’erano tanti nel mondo antico – chiuso dentro a quattro mura, dando vita magari ad una scuola, istruendo dei discepoli con pillole di saggezza e ragionamenti elevati, e non si fosse portato sulla strada, non avesse incontrato poveri, prigionieri, ciechi e oppressi di ogni sorta, non avrebbe dato carne a questa parola. Più la parola in noi si fa carne, più ci rende prossimo alla carne dei fratelli e delle sorelle, cioè alle loro fragilità.
Nella prima Messa celebrata proprio in Cattedrale a Carpi, 91 anni fa, don Zeno presentò un giovane che aveva preso con sé, appena uscito dal carcere. Quel prete novello era venuto per proclamare la libertà ai prigionieri. Si circonderà poi di ragazzi che vivevano tante forme di disagio, portando così il lieto annuncio ai poveri. Busserà alle porte delle autorità, nella Chiesa e nello Stato – trovandole spesso purtroppo chiuse – per cercare di ridare ai ciechi la vista, per evitare che nascondessero la testa sotto la sabbia. Vivrà e predicherà una grande libertà interiore, che lo renderà indigesto a tanti, come accade sempre ai profeti; ma in questo modo darà il proprio contributo per portare agli oppressi la libertà. Non ha eguagliato Gesù – cosa impossibile – ma si è avvicinato molto a lui nell’identificazione tra parola e vita. Don Zeno è stato una specie di Vangelo ambulante. Non pretendeva di tradurre in realtà “tutto” il Vangelo – del resto San Paolo ci ha appena detto ciascuno di noi è solo una delle membra del corpo di Cristo – ma sentiva di dover interpretarne fino in fondo la radicalità. Don Zeno è un dono che va donato, specialmente agli ultimi, i destinatari della missione di Gesù.
Il saluto di Giancarlo, presidente di Nomadelfia: “anche se lontani sempre figli della chiesa di Carpi. Grazie per farci sperimentare questa fraternità. Ora una presenza in Tanzania”
Siamo contenti e grati al Signore di essere con voi oggi in questa chiesa cattedrale. Ricordiamo oggi il 60° anniversario della “seconda prima messa” di don Zeno. Dopo una laicizzazione durata oltre otto anni, don Zeno poté tornare a celebrare in quel 1962 a Grosseto. Questa laicizzazione gli era stata concessa “pro gratia”, in quanto don Zeno l’aveva ripetutamente richiesta per salvare i suoi figli e per pagare i debiti, senza coinvolgere la Chiesa. Nomadelfia si era rifugiata, lontano dai riflettori, in una terra che allora era considerata “amara”. E il trapianto, come don Zeno stesso l’aveva definito, aveva attecchito nella terra di Maremma. Un trapianto inizialmente difficile, con poche risorse, molti sacrifici e carenze di tutto. Ciò che non sono mancati sono stati l’amore, la forza della fede e la fiducia nella Chiesa. Così nel silenzio Nomadelfia è risorta, focalizzando sempre più il suo carisma di una fraternità vissuta come popolo, secondo lo stile delle prime comunità cristiane, sempre in sintonia con la Chiesa, e testimone nel mondo che è possibile costruire una “nuova civiltà”, solidale e fraterna. Questo cammino continua anche oggi, in una società sempre in trasformazione, dove si allargano i tempi e gli spazi dei contatti virtuali e si riducono al minimo quelli della condivisione e del dialogo fraterno. Nomadelfia è una proposta di vita che parte dal vangelo, e nella sua semplicità continua a testimoniare che è possibile costruire spazi e luoghi di vera fraternità. Il suo sguardo e la sua proposta si rivolge a tutti e in ogni parte del mondo.
In questo periodo sta iniziando un progetto in Tanzania, in una zona poverissima dove da anni è presente l’Abbazia Benedettina di Mvimwa, con 90 monaci, e alla fraternità dei monaci affiancheremo quella delle famiglie di Nomadelfia. Sono due fraternità che si possono completare e diventare una proposta di vita cristiana fraterna e una possibilità di rinascita umana e sociale per la popolazione. Oggi ci ritroviamo a celebrare anche le radici di don Zeno, che sono in questa chiesa. Qui il 6 gennaio 1931, nella prima messa solenne, il giovane prete don Zeno compiva un atto senza clamore: prendeva come figlio Danilo, detto Barile. Con quel gesto nasceva Nomadelfia.
Nomadelfia è nata qui e, anche se lontani, ci sentiamo sempre figli della Chiesa di Carpi. Siamo grati al vescovo Erio e a tutti voi per farci sperimentare ogni volta questa fraternità.