Cammino Sinodale – Narrare è un atto creativo

Il cammino sinodale invita ad assumere uno stile narrativo per comunicare l’esperienza di fede perché “per opera dello Spirito Santo ogni storia, anche quella più dimenticata può diventare ispirata, può rinascere come capolavoro, diventando un’appendice di Vangelo”

C’è una storia raccolta da Jirí Langer, ebreo praghese amico di Kafka, contenuta nel volume Le nove porte: “In una yeshivà (la scuola talmudica) un giovane allievo, un po’ sprovveduto e proveniente da lontano, sin dai primi giorni di insegnamento si segnala per una strana caratteristica. Non appena il maestro, volendo introdurre la lettura della Torah, pronuncia le parole: ‘E Dio disse’ (il ritornello del primo capitolo di Genesi), egli si mette a danzare e, correndo vorticosamente su e giù nel cortile della scuola, non smette di ripetere come un folle: ‘E Dio disse’, ‘E Dio disse’. In tal modo non riesce che a seguire pochi attimi della lezione. Eppure questo gli è sufficiente”. “E Dio disse”! L’ingenuo studente aveva colto, in realtà, il senso profondo di quelle tre parole, che racchiudono l’evangelo più stupefacente mai udito dal cosmo: YHWH parla, e il suo narrare è meravigliosamente creativo. Attraverso la sua parola Egli crea, e fa buono (e bello, secondo l’originale ebraico tov) tutto ciò che plasma. Tuttavia l’agire di YHWH si concretizza tramite un racconto, ancor prima che con un gesto. Inoltre, non è creativo solo di un mondo: è creativo di un popolo, quello che diverrà Israele quando, ai piedi del Sinai, non vide immagine alcuna, e “vi era soltanto una voce” (Dt 4,12). Quel ragazzo della yeshivà aveva intuito che il compito dell’uomo è fare memoria delle meraviglie di Dio, raccontando a sua volta che YHWH ci ha parlato. Ha scritto papa Francesco nel messaggio firmato per la cinquantaquattresima giornata delle comunicazioni sociali (2020), intitolato “Perché tu possa raccontare e fissare nel- la memoria” (Es 10,2). La vita si fa storia, prendendo atto della rinascita di quella che il teologo tedesco J.B. Metz ha chiamato teologia narrativa: “Dopo che Dio si è fatto storia, ogni storia umana è, in un certo senso, storia divina. Nella storia di ogni uomo il Padre rivede la storia del suo Figlio sceso in terra. Ogni storia umana ha una dignità insopprimibile. Perciò l’umanità merita racconti che siano alla sua altezza, a quell’altezza vertiginosa e affascinante alla quale Gesù l’ha elevata”.

Sono trascorsi cinquant’anni dall’uscita del numero di Concilium grazie al quale la locuzione teologia narrativa entrò nel dibattito teologico mondiale, provocando da subito un discreto fragore. Si deve a quel fascicolo il merito di aver avviato una riflessione destinata a rivelarsi quanto mai fruttuosa in vari ambiti del sapere religioso: è da allora che si è cominciato a discutere di etica narrativa, di pedagogia narrativa, di esegesi narrativa, catechesi narrativa, e così via. Che si è riaperta una strada da troppo tempo chiusa, o perlomeno inaridita. Che si è colto, finalmente, non solo che, come spiegava Umberto Eco nella prefazione a Il nome della rosa, di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare, ma che la fede cristiana si capisce veramente solo raccontando una storia.

Se il narrare di Dio rappresenta il suo ingresso e, in un certo senso, la sua compromissione con la storia, è evidente che, per trattenere Dio nella storia, tutto questo debba essere narrato: questo e tutto ciò che viene dopo nelle opere di Dio, l’esodo, l’elezione, l’alleanza, la futura redenzione nei cieli nuovi e terra nuova. Sì, paradossalmente anche il futuro va narrato: non come fantasia letteraria o illusione apocalittica, ma in quanto seme nascosto nel tesoro della memoria e destinato a germogliare in seguito. È in tale chiave che nel rito della cena pasquale ebraica – il seder, matrice dell’eucaristia cristiana – la famiglia racconta e si racconta, secondo il comando di Es 12,14.27, ma tiene anche socchiusa la porta di casa, nell’eventualità

che si faccia vivo il profeta Elia, l’araldo dell’approssimarsi della fine del tempo. Tali temi sono rimasti negletti per secoli nella teologia e nella catechesi cristiane e la Bibbia è stata letta spesso in modo atemporale, come una riserva di prove teologiche. Oggi però non è più così, e i risultati si cominciano a vedere.

Parafrasando Daniel Pennac, si potrebbe dire che la testimonianza e l’insegnamento cristiani si snodano nei secoli come un racconto, a partire dal racconto fondatore, quello della vita, morte e risurrezione di Gesù di Nazaret. La riscoperta di una teologia che prende le mosse da qui, accogliente, disponibile alla parresìa, produttrice di speranza, ha reso più agevole la ripresa di un incontro con l’ebraismo, che si è sempre autocompreso più con la narrazione che con la riflessione dogmatica. Nel tempo del pluralismo religioso e del mosaico della fede in un Paese, come il nostro, che fatica ad accettare questo scenario in progress, la ricerca di occasioni di incontro e di dialogo passa anche attraverso un lavoro sulla nostra identità narrativa. Perché dialogare non signifi ca necessariamente risolvere un problema: invece di argomentare o dimostrare, si può anche raccontare o ascoltare la storia di un altro.

Andrebbe favorita, pertanto, la possibilità ai molti fratelli e sorelle stranieri che ci vivono accanto (e con i quali, peraltro, spesso ancora non viviamo ancora insieme) che vorrebbero narrare la propria storia, di poterlo fare, moltiplicando gli spazi e i momenti per far sì che il nostro racconto – oggi non di rado sfuocato – s’incroci con il loro. Creando un racconto nuovo. Anche perché – come annota il papa nel suo messaggio – “per opera dello Spirito Santo ogni storia, anche quella più dimenticata, anche quella che sembra scritta sulle righe più storte, può diventare ispirata, può rinascere come capolavoro, diventando un’appendice di Vangelo”. Chiudo, ripensando ai rapporti con i nostri fratelli maggiori (come li chiamò san Giovanni Paolo II nel suo storico incontro nella Sinagoga a Roma il 13 aprile 1986), con una domanda retorica. È solo un caso che si sia ripreso a dialogare fra ebrei e cristiani, proprio mentre la teologia è tornata a verificare le proprie antiche radici narrative? No, non è un caso, anzi: è un’altra prova che “la salvezza viene dai Giudei” (Gv 4,21), o meglio, da Chi l’ha raccontata loro e, tramite loro, a tutti. Senza voler stabilire l’ingenerosa equazione per cui argomentativo equivarrebbe senz’altro a negativo e narrativo a positivo, vorrei parafrasare l’esclamazione di Mosè – “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore!” (Num 11,29) – così:” Fossero tutti narratori di storie nel popolo del Signore!”.

Brunetto Salvarani