Credi tu questo? – 1° incontro “Si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” – La vita spirituale

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“SI AVVICINÒ E CAMMINAVA CON LORO” – In Cristo trova luce il mistero umano.
Percorso di formazione pastorale di base rivolto a tutte le comunità.

Primo appuntamento LUNEDI 9 OTTOBRE ORE 21: “Si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”, LA VITA SPIRITUALE.
Catechesi di don Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola, vescovo di Carpi. leggi –>

Approfondimento sul tema a cura dell’ufficio ministeri e ufficio liturgico, 4 novembre 2023.
Invitiamo a riunirsi nelle proprie comunità parrocchiali per partecipare al percorso di formazione e continuare a camminare insieme in uno stile sinodale.
INFO: www.chiesamodenanonantola.it, www.diocesicarpi.it.


CREDI TU QUESTO?

Anno 2023-2024 – I

“Si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”

LA VITA SPIRITUALE

9 ottobre 2023

Vedi il video della Catechesi sul canale youtube della Chiesa di Modena-Nonantola: https://www.youtube.com/watch?v=Km9LUvX7xXs

La vita spirituale è incarnata nella relazione con Dio

Pubblichiamo una sintesi della prima catechesi del percorso formativo “Credi tu questo?” dedicata alla vita spirituale, che è una delle quattro dimensioni della vita cristiana. Incontro presieduto dall’arcivescovo Erio Castellucci, che cita le lettere di San Paolo agli Efesini e agli Ebrei e il Vangelo di Giovanni per ribadire la centralità del corpo nella vita cristiana anziché come materia disgiunta e in contrapposizione alla dimensione spirituale. Tale riflessione si svilupperà in quattro implicazioni: l’intrinseca dignità di ogni essere umano, da riconoscere come fine e non come mezzo (Mc. 2,27), la ricerca della felicità come ricerca di Dio, la relazione tra il cristianesimo e altre religioni e infine la corporeità quale elemento centrale della spiritualità cristiana.

Di Erio Castellucci *

«Si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (Lc. 24,31). Partiamo da qui, non partiamo da noi. Il punto di partenza più sicuro per parlare degli esseri umani, della nostra vita, è Cristo, come è scritto nella Costituzione Gaudium et spes (nn. 1 e 22). Testo del Concilio Vaticano II che è un commento di ciò che scrive san Paolo nella Lettera agli Efesini: siamo stati «creati in Cristo Gesù» (2,10); a quanto scrive san Giovanni del suo Vangelo: «Il verbo si fece carne» (1,14); a quanto si legge nella lettera agli ebrei: per mezzo di Lui «è stato fatto anche il mondo» (1,2). A questo proposito vorrei proporre un’immagine che si trova in Vaticano, nel Sarcofago dogmatico del IV secolo, che contiene due bassorilievi (nel registro superiore l’Antico testamento e in quello inferiore il Nuovo) e rappresenta la Creazione dell’uomo e della donna. Nell’immagine ci sono tre personaggi: uno seduto, che è il padre, nell’atto di parlare (Quando nell’arte paleocristiana un personaggio tiene le tre dita aperte vuol dire che sta parlando). È Dio che con la sua parola crea. Dietro di Lui c’è un personaggio identico: è lo Spirito Santo che suggerisce. Davanti a lui c’è il Figlio, che tiene la mano destra su Eva mentre Adamo è già creato ed è steso.

 

Guardando Cristo, il Signore ha messo in moto questa creatura, l’universo, insieme a questo essere pensante che è l’essere umano, uomo e donna. Come quando un artista deve scolpire o dipingere s’ispira a un modello. Noi siamo stati pensati, voluti, sognati e realizzati dal Signore a immagine di Cristo. E Cristo non è solo Spirito, ma corpo: è il Verbo che si è fatto carne. Per questo la Bibbia, sin dall’inizio si distanzia da chi diceva che Dio ha creato solo le anime e che i corpi sono decadenza e pertanto sono venuti dal diavolo. Il corpo è parte essenziale della persona nell’ebraismo e soprattutto nel cristianesimo.

Quattro dimensioni dell’essere umano

Dalle prime pagine della Bibbia possiamo dire che, alla luce della creazione, l’essere umano ha quattro dimensioni che rappresentano la ricchezza e anche la sua ferita: la prima dimensione è quella religiosa e spirituale, del rapporto con Dio. «Dio lo creò a sua immagine, a immagine di Dio lo creò. Maschio e femmina li creò» è quanto viene detto dell’essere umano. Dunque l’uomo e la donna sono immagine di Dio. Non soltanto in quanto singoli, ma c’è qui una seconda relazione, che è quella interpersonale («Maschio e femmina li creò» Gen. 1,27), che comprende la sessualità, la società, la comunità. E poi c’è la relazione con sé stessi: la relazione esistenziale, l’autocoscienza. Tra le creature, soltanto l’essere umano sa di esistere. Tutte le altre creature esistono. Gli animali più evoluti hanno anche una vita psichica, una memoria. Ma solo l’essere umano si mette davanti a sé stesso ed è soggetto di sé stesso. C’è infine una quarta dimensione, che è quella ambientale o addirittura cosmica.

La Bibbia presenta l’uomo e la donna a cui è affidato il resto del Creato. All’uomo, in particolare, attraverso il lavoro è affidato il giardino, perché lo coltivasse e lo custodisse, e alla donna la cura della casa attraverso il parto e l’educazione dei figli. Ma queste quattro dimensioni: religiosa, esistenziale, sociale, ambientale sono ferite. Ce lo dice il capitolo 3 della Genesi, un altro pilastro dell’antropologia cristiana che racconta il peccato originale. Sappiamo che sono testi reali proprio perché di simbologia profonda. Essi non rappresentano una cronaca ma ci dicono quello che succede ogni volta che noi pecchiamo. Benché ci sia un momento in cui il peccato è entrato nel mondo, bisognerebbe parlare di peccato originario anziché di peccato originale: ogni volta che noi mettiamo l’io al posto di Dio sovvertiamo le quattro dimensioni della nostra vita. È questo il peccato originale. «Mangiarono dell’albero della conoscenza del bene e del male»: non significa che hanno mangiato un frutto ma che a un certo punto l’umanità ha cominciato a decidere da sola cosa fosse il bene e il male, prescindendo da Dio e dall’ordine del Creato. Potremmo dire: l’io al posto di Dio. Ogni peccato ha questa natura. In questa sede ci concentriamo sulla prima relazione, quella con Dio, sulla dimensione religiosa e spirituale. Nella Bibbia l’essere umano è presentato a immagine e somiglianza di Dio.

L’intrinseca dignità dell’uomo

Nel Nuovo testamento gli autori sono più specifici: a immagine e somiglianza di Cristo nel quale siamo stati creati. E questa semplice affermazione ha quattro   implicazioni. La prima è che l’essere umano non è strumento di nessuno, ma c’è una dignità intrinseca. È preferibile dire così piuttosto che parlare di sacralità della vita. Non perché non siamo convinti che la vita sia sacra ma perché con tale affermazione si viene subito relegati in ambito religioso e qualcuno potrebbe dire «Io non credo, dunque per me la vita non è sacra». C’è invece un valore laico, accettato da molti, per cui la vita di ciascuno è indisponibile all’altro. Nessuno può diventare strumento di un altro. Se c’è questo filo diretto con Dio e ciascun essere umano è immagine di Dio, allora l’essere umano non è disponibile a essere strumento di altri. E questo lo ha già detto Gesù in una famosa frase «Non l’uomo è fatto per il sabato, ma il sabato per l’uomo» (Mc. 2,27). Prospettiva ripresa da un grande filosofo, Immanuel Kant, diciotto secoli dopo quando ha fissato uno dei pilastri della vita morale affermando «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine, mai solo come mezzo» (Fondazione della metafisica dei costumi, 1785). Nessuno, dunque, può essere strumento di un altro. E anche quando sbaglia l’essere umano mantiene la propria dignità intrinseca. È molto significativo che nel quarto capitolo della Genesi, dopo l’uccisione del fratello Abele, Caino venga in un certo senso protetto da Dio. «Il Signore gli ha messo un segno in modo che nessuno possa uccidere Caino» (Gen. 4,15). È misterioso, non sappiamo cosa significa. Questo gesto però non legittima il peccato, ma ricorda che Caino è ancora immagine di Dio e nessuno può strappare da sé questa dignità. Può certamente oscurarla, contraddirla, rinnegarla ma fa parte del proprio essere. L’essere umano non è disponibile nemmeno a sé stesso. Questo quadro si lega al discorso della coscienza, che il Concilio Vaticano II riconosce come inviolabile. Un nucleo, un sacrario, che non è violabile da nessuno. Altrimenti l’essere umano sarebbe in balìa di ogni potere. Quando un dittatore stabilisce dei criteri per cui occorre o meno rispettare la dignità di una persona non c’è più nessuna sicurezza. Noi invece dobbiamo ribadire che la persona viene prima di tutti gli aggettivi. Non ci sono criteri estetici, morali, anagrafici, etnici, sociali né utilitaristici che determinino i criteri della persona. È il fatto di spuntare, di esistere, di essere immagine di Dio.

La ricerca della felicità

Ogni essere umano, a partire dall’impronta divina che ha dentro di sé, desidera vivere pienamente, desidera la felicità, ricerca un senso e non è appagato finché non l’abbia trovato. Tutti cercano la felicità. Sant’Agostino rivela proprio questa dinamica: «Ci hai fatti per te, Signore, il nostro cuore è inquieto fino a quando non riposa in te» (Confessioni I, 1.1). Lo stesso Agostino è convinto che chi cerca la gioia, anche quando sbaglia, implicitamente cerca Dio (Sant’Agostino, Confessioni, II, 6, 13-14). Agostino fa un elenco di peccati, di vizi, e dice che anche chi cerca la felicità attraverso questi

vizi non fa altro che cercare nascostamente Dio. Anche attraverso le nostre ferite noi cerchiamo la felicità, che proviene da Dio. Blaise Pascal, un altro grande credente, di cui quest’anno celebriamo il quarto secolo dalla nascita, sottolinea che «tutti gli uomini cercano di essere felici» (Pensieri, Num. Sellier, 181). Ma anche chi non crede vive la stessa inquietudine, forse anche maggiore. Perché chi non crede solleva una domanda che per lui non ha risposta. Giacomo Leopardi (Zibaldone di pensieri, 12 luglio 1820) quasi grida il desiderio di pienezza che è nell’essere umano. Lo fa anche nello struggente passaggio di poesia «A sé stesso», (1833), dove dice «Nulla e fango è il mondo». Ma questo grido nasce da un desiderio inappagato di felicità, da quel doppio sentimento che è in tutti gli esseri umani: il contrasto tra la sete di gioia e la ferita perché non riesce a dissetarsi; lo sbilancio tra la sete di felicità e la sua realizzazione è così grande che la stessa vita gli appare infinita vanità. Leopardi stesso è l’esempio di come una persona non si rassegna mai all’irraggiungibilità della gioia. Continua a cercare sempre, ma da solo non può raggiungerla.

Un grande filosofo dell’Ottocento a cui tutti i filosofi atei successivi si rifanno, Ludwig Andreas Feuerbach ha proposto una teoria che spiegherebbe a suo parere l’idea dell’esistenza di Dio e riguarda tre grandi desideri che gli esseri umani non possono soddisfare. Il desiderio di sapere, per il quale, cogliendo il nostro limite, si crea un Dio onnisciente; il desiderio di potere per cui si crea un Dio onnipotente e infine quello di vivere per sempre, per cui si crea un Dio eterno. Per Feuerbach Dio è fatto a immagine dell’uomo. E dal punto di vista razionale il meccanismo potrebbe funzionare così, ma potrebbe funzionare che noi abbiamo il desiderio di pienezza perché Dio ha messo questa impronta nel cuore. Certo che se avesse ragione Feuerback noi saremmo i più sfortunati fra tutti gli esseri viventi. Perché almeno gli animali non si fanno queste domande esistenziali, non vivono il dramma di non trovare appagamento alla sete di felicità, non si suicidano per perdita degli affetti. Dal punto di vista razionale potrebbe avere ragione Feuerback «Dio è a immagine dell’uomo» oppure la Bibbia e Sant’Agostino «l’uomo è a immagine di Dio». Entrambi possono spiegare il desiderio. Se però Dio non esistesse la nostra vita sarebbe disperata o solo alcuni fortunati potrebbero assaporarne il gusto.

Le relazioni tra cristianesimo e religioni

Se Dio ha posto la sua impronta su ogni essere umano, tutti coloro che cercano Dio, in qualsiasi forma, in qualche modo sono sulle tracce di Dio. Il rapporto fra cristianesimo e religioni non è un rapporto di alternativa. Insostenibile ritenere che noi abbiamo la rivelazione e tutti gli altri sbaglino. Sin dall’inizio i padri della Chiesa parlarono di semi di Verbo che erano sparsi nelle altre culture; di germi di Dio Padre che erano dappertutto. Poi c’è sempre il rischio di cadere nell’integralismo: noi sappiamo tutto e gli altri non sanno nulla. Si chiude così la possibilità di apprezzare i doni dello Spirito anche al di fuori della Chiesa. D’altra parte vi è la tentazione di cadere nel relativismo per cui tutte le religioni sono uguali. Il relativismo è talmente aperto che non comporta il dialogo. Entrambe le prospettive limitano il dialogo, che insieme all’annuncio è pilastro della missione come affermava Giovanni Paolo II. L’annuncio come apprezzamento di quanto di buono c’è negli altri (Dich. Nostra aetate 2; e Redemptoris missio, 29). Noi cristiani crediamo che la pienezza si sia rivelata in Cristo ma che tale rivelazione non escluda molti elementi buoni e belli. È attraverso questa pienezza che noi ci rendiamo conto di quanta bellezza c’è anche al di fuori dei confini della Chiesa.

Una spiritualità corporea

La quarta e ultima implicazione è la corporeità: una spiritualità corporea. Paradosso per noi che siamo abituati a dividere corpo e spirito. Quasi a contrapporli. Era il filosofo precristiano Platone, che diceva che l’anima è degna mentre il corpo è una prigione dell’anima. E noi portiamo dentro frammenti di quest’idea. Quasi a pensare che il corpo sia il peccato mentre l’anima la santità. San Paolo invece ci invita a offrire i nostri corpi non le nostre anime (Rm. 12,1). Per san Paolo il corpo comprende tutta la persona: l’anima, la materia. E tutta la persona è relazione con Dio, con gli altri, con sé stesso e con il mondo. La vita spirituale, cristiana, non è affatto priva del corpo; non può prescindere dal corpo nel suo rapporto con Dio. L’atto spirituale più completo per noi cristiani è la liturgia, che implica i sensi: l’udito, la parola, la vista, i segni, i simboli, il tatto, la comunità. Il segno della pace, che ora possiamo darci di nuovo. La Comunione eucaristica, che implica il gusto. Implica l’olfatto nelle liturgie solenni. La spiritualità cristiana è il contrario dello spiritualismo. Lo spiritualismo è il tentativo di ritagliarsi una dimensione di relazione con Dio mettendo da parte la corporeità e i legami. Non è questa la spiritualità cristiana, che è la pienezza dei legami. Pensate che al centro di tutto c’è un Dio che si è fatto carne. Elemento che scandalizzava all’inizio, quando si predicava che Dio aveva preso un corpo. E questo in alcune zone del mondo convince ancora, perché Dio col corpo non c’entra, si sminuisce, degrada. Invece per i cristiani il corpo di Gesù è il luogo della salvezza di Dio.

La spiritualità avviene attraverso il corpo e non è solo chiusa nella liturgia, ma passa attraverso la vita quotidiana. La liturgia ci spinge a incontrare Cristo nel corpo e nel sangue dei nostri fratelli, nelle relazioni riuscite (corpo), nelle relazioni ferite (sangue), nelle gioie (corpo), nelle sofferenze (sangue). Per questo san Paolo chiama la chiesa «corpo di Cristo». La vita cristiana non prescinde dal corpo, anzi lo implica. Sant’Agostino, infatti, descrive la sua conversione come un’esperienza sensoriale, facendo vedere che Dio si manifesta nei cinque sensi (Confessioni 10, 20, 38). È qui il punto di maggiore distinzione tra cristianesimo e religioni. Il cristianesimo assume una dimensione religiosa ma sempre a partire dalla fede, da un rapporto personale con Dio. Noi cristiani non pensiamo che la vita spirituale parta da noi, ma che sia risposta a Colui che si dona. È partito Lui, creando relazione con noi come scrive Benedetto XVI nella sua prima enciclica: all’inizio del cristianesimo non c’è una nuova idea di Dio e neppure un nuovo comandamento, bensì un incontro, una relazione da cui dipende anche la fede e la morale. Se uno volesse vivere la vita cristiana senza questa relazione si troverebbe presto svuotato e appesantito. Anche papa Francesco insiste molto sui rischi dell’intellettualismo e del volontarismo. La vita cristiana parte da un incontro, da una relazione; coinvolge la corporeità, i sentimenti, i cinque sensi. Altrimenti non è spiritualità cristiana ma divagazione spiritualista. E qui entra in gioco il cuore, che per la Bibbia è il luogo centrale della persona e riguarda i sentimenti, la volontà, i legami. Tant’è che Blaise Pascal scriverà: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce». Qui il cuore come centro della persona, che implica anche la ragione. E ancora: «L’ultimo passo della ragione è riconoscere che ci sono un’infinità di cose che la sorpassano». E Pascal era uno scienziato, un matematico, un fisico che dice queste cose dall’interno della scienza.

Il vertice della riflessione di Pascal credo si possa trovare nel suo memoriale: quel piccolo scritto che dopo la sua morte è stato trovato cucito all’interno della sua giacca e descrive la notte della sua conversione, avvenuta nove anni prima della sua morte (Memoriale, 23 novembre 1654). Pascal non rinnega la scienza né la filosofia, ma coglie un Dio di carne, un Dio vivo. Non un Dio dei dotti né dei filosofi. Il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo. Un Dio che stringe relazioni con gli umani. Questo è il Dio che commuove Pascal e lo converte, rappresentando l’originalità del cristianesimo rispetto alle religioni. Un Dio che si muove per primo, che si allea con la sua creatura.

Commento conclusivo

E allora, concludendo, la vita spirituale cristiana richiede molta umiltà. Perché l’umiltà tiene unite tutte le virtù (teologali, cardinali) che sono come le perle del Rosario, diceva Giovanni Maria Vianney. L’umiltà significa sapersi salvati: sentire, come Leopardi, che la vita da sola non ha senso; come Agostino, che la nostra inquietudine deve riposare in Dio; sentire, come Pascal, che è lui che fa il primo passo. L’umiltà significa tradurre in preghiera il rapporto con Dio. Ma non una preghiera che detti le condizioni a Dio, ma la preghiera dei figli che Pietro stesso esprime quando affonda «Salvami, Signore. Essa coltiva l’umiltà e ci aiuta a mantenere il giusto rapporto con Dio come Padre. Noi abbiamo l’impronta di Dio nel nostro cuore, come immagine di Gesù. Questa immagine ci fa cercare sempre oltre, perché non siamo mai paghi delle gioie che proviamo. E se Dio esiste, come noi crediamo, c’è una meta e ha senso faticare per trovarla. E questo è il Dio di Gesù Cristo, che si presenta non come padrone né contraente ma come Padre. Un Dio che ci dà una certezza: io sono con te. Non una certezza che libera dai problemi. Ma è molto diverso affrontare le difficoltà della vita sapendo di essere tenuti per mano, di essere portati in braccio da un Padre, o pensare di camminare da soli.

* arcivescovo

“Si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” – LA VITA SPIRITUALE – 9 ottobre 2023: