Credi tu questo? – Le diapositive della presentazione e una sintesi dei contenuti del secondo incontro tenuto da Don Raffaele Coppi
2° Incontro – Lunedì 25 ottobre – Parrocchia di Campogalliano
Gesù figlio di Dio e figlio di Maria – Don Raffaele Coppi
Il secondo articolo del Credo ci consegna le parole che maggiormente hanno impegnato la riflessione della Chiesa dei primi secoli. Gesù è vero Figlio di Dio – seconda Persona della Trinità, ‘della stessa sostanza’ del Padre – e reale Figlio di Maria – uomo come noi, nato da donna in un tempo e in un luogo precisi. Questa consapevolezza è il frutto di un interrogativo che fin da subito è sorto in coloro che hanno conosciuto Gesù, e che nei primi tre secoli di vita della Chiesa ha trovato risposte differenti nei diversi ambienti culturali in cui le comunità cristiane sono maturate.
Già a partire dai Vangeli troviamo spesso la domanda sull’identità di Gesù: come può un semplice uomo avere una tale forza interiore? Come può compiere certi segni? Come stanno insieme la sua storia di nazaretano, con una famiglia e legami conosciuti, e l’autorità dei suoi gesti e delle sue parole? Il testo di Marco, il più antico tra i Vangeli canonici, ci racconta di un’identità che viene svelata pian piano, facendo piazza pulita di tutte le possibili attese umane su Dio e sul suo Messia. Gesù più volte intima il silenzio a chi lo definisce Figlio di Dio, e solo la morte in croce permetterà ad un uomo – il centurione romano, un pagano – di chiamarlo con questo appellativo senza timore di smentite.
Ma se andiamo un po’ oltre i testi evangelici, ci rendiamo conto che la domanda su chi sia Gesù è ineludibile per chiunque si dica cristiano; e le possibili risposte devono presto fare i conti con visioni parziali o devianti, che tendono a ridurre il Signore ad una figura poco più che umana o, al contrario, a far scadere l’umanità a pura apparenza. A ben vedere, è proprio questa seconda riduzione la più diffusa: già le lettere di Giovanni devono fare i conti con chi negava l’umanità di Gesù (cf. ad esempio 2Gv. 7); in aggiunta ad esse Ignazio di Antiochia, scrivendo alle comunità dell’Asia Minore intorno al 110 dC., mette in guardia contro il pericolo di chi sosteneva che Gesù fosse nato, avesse vissuto, avesse sofferto in croce fino alla morte solo in apparenza. Questa credenza prende appunto il nome di docetismo, dal verbo greco dokeo (= apparire, sembrare), e Ignazio ne testimonia una diffusione molto ampia. Dunque, se non fu semplice riconoscere nel figlio di Maria il Figlio di Dio, fu ancora più complicato compiere l’operazione inversa, ossia accettare che il Figlio di Dio fosse realmente figlio di Maria.
Di certo, l’immersione nella cultura greco-platonica dei primi secoli, che ha prodotto tanti benefici nella riflessione teologica, ha portato con sé una sorta di spaccatura tra spirito e materia, o quantomeno un dualismo. Per Platone il mondo reale era quello immateriale (il mondo delle Idee) e la materia era ciò che di più lontano potesse esserci dalla piena realtà; perfino l’uomo non era altro che anima imprigionata in un corpo materiale, a volte considerato come strumento e a volte come ostacolo o carcere. Nell’assumere questa sensibilità, alcune correnti eretiche hanno accentuato il disprezzo per la materia (ad esempio gli Gnostici); ma anche chi ne ha riconosciuto la bontà (tutta la creazione è opera di Dio, dunque è buona!), ne ha colto il carattere transitorio e secondario rispetto allo spirito. ‘Gli uomini sono anime che si servono dei corpi’, sottolineava Origene in uno dei suoi scritti più importanti (cf. Pr. IV, 2, 7).
Di contro, chi rifiutava l’influenza platonica e si rifaceva ad una matrice di carattere giudaico, sosteneva la piena unità tra corpo e anima, fino ad arrivare a ipotizzare la necessità di un premio terreno anche per il corpo, non solo un giudizio finale per lo spirito. La credenza in un millennio di pace sulla terra, dove i giusti risuscitati avrebbero regnato con Cristo in una Gerusalemme ristabilita, era molto diffusa nei primi tre secoli, e a vario titolo la troviamo in tutti gli autori più importanti dell’area asiatica e antiochena.
Perché accennare a queste due tendenze culturali? Perché i cristiani di ogni epoca hanno cercato di comprendere la figura di Cristo inserendola nei modelli culturali del proprio tempo, così come facciamo anche noi oggi. E se una matrice culturale poteva offrire chiavi di lettura utili a sondare il mistero di Dio e di Cristo, i pensatori cristiani ne raccoglievano le intuizioni principali. Certo, nessun sistema filosofico o culturale è perfetto: il limite del platonismo era il dualismo tra spirito/anima e materia; il limite della matrice giudaica era invece una considerazione troppo rigida del monoteismo. Per chi proveniva da questo mondo culturale, era molto difficile considerare l’unicità di Dio e al tempo stesso concepire Dio come Padre-Figlio. Per chi si rifaceva al modello platonico si trattava invece di un’operazione tutto sommato semplice: già Platone, infatti, aveva contemplato nel suo impianto cosmologico la figura di un Mediatore divino, il Demiurgo, colui che osserva le Idee e in base ad esse dà forma alla materia. Per i cristiani fu quasi naturale identificare il Figlio in questa figura di mediazione, come Parola creatrice (cf. Gen. 1) e salvatrice (Cristo incarnato). Questa acquisizione concettuale sarà uno dei motivi (non l’unico) del grande successo della cultura platonica in ambito cristiano; ne segnerà anche il limite, quando con la crisi dell’eresia ariana si metterà in discussione la piena divinità del Figlio, proprio per il suo ruolo di mediatore – e quindi in posizione mediana tra Dio e il mondo.
La riflessione degli autori cristiani dei primi tre secoli, che spesso integrava elementi di una o dell’altra matrice culturale, in fondo portava con sé due grossi interrogativi sul Figlio: 1. Com’è possibile pensare in Dio l’unicità e al tempo stesso la presenza di più soggetti (questione trinitaria)? 2. Come concepire il rapporto tra divinità e umanità in Cristo (questione cristologica)? Queste domande, che nel tempo della Chiesa perseguitata accompagnano sotto traccia le discussioni dei pensatori, emergono con forza dopo la pace della Chiesa, allorché Costantino chiede ai cristiani uniformità di fede e di pensiero, per favorire la stabilità dell’Impero. Inizia l’epoca dei grandi Concili.
L’interrogativo trinitario verrà affrontato a Nicea, nel 325, con una recezione che durerà poco meno di 60 anni, fino al Concilio di Costantinopoli del 381. Saranno 60 anni di lotte senza quartiere, per accettare un termine – ‘della stessa sostanza del Padre – che non apparteneva alla tradizione biblica e che agli orecchi di molti risultava ambiguo. L’opera dei padri Cappadoci, insieme a quella di Atanasio, Ilario e tanti altri, fornì il linguaggio e le condizioni politiche per accettare la piena divinità del Figlio (e introdurre la divinità dello Spirito Santo). Dire che Gesù è Figlio di Dio ha richiesto questa elaborazione.
Più lenta e faticosa (se possibile!) è stata la comprensione di Gesù figlio di Maria. Sono stati necessari perlomeno 4 Concili (Efeso, Calcedonia, altri due concili a Costantinopoli) nell’arco quasi 300 anni per riconoscere che ad essersi incarnato è stato proprio il Figlio – seconda Persona della Trinità – e che l’umanità da Lui assunta era piena, completa, integra. Può sembrare paradossale, ma proprio ciò che è più vicino a noi, ossia l’umanità, è ciò che con maggior difficoltà si accetta di attribuire al Verbo. A tal proposito, è utile ricordare una frase che, ancora all’inizio della discussione, Gregorio di Nazianzo scrisse a Cledonio: ‘ciò che non è stato assunto non è nemmeno stato sanato’ (Ep. 101, 32). Solo se crediamo che Dio si sia incarnato in un’umanità piena, che non lascia fuori niente della nostra vita di uomini, potremo pensare ad una salvezza reale per noi. Al tempo stesso, solo se percorriamo fino in fondo la via dell’Incarnazione – ossia dell’esser uomini e donne – potremo scoprire il senso della salvezza che ci è stata donata.
Questo percorso non si riduce ad una carrellata di idee teologiche maturate nella storia della Chiesa, ma interroga il nostro presente. Anche oggi la tentazione forte è contrapporre: lo spirito e la materia, la scienza e la fede, la spiritualità e la psicologia, l’agire e la preghiera … come se un ambito negasse o sminuisse in qualche modo l’altro. È la tentazione di chi pensa alla vita cristiana solo come un ‘fare’, che a volte risulta addirittura poco umano; è la tentazione di chi si butta in una ‘cura dell’anima’ che non incide nella realtà, non affronta i problemi e pretende da Dio una soluzione magica di ciò che noi non abbiamo il coraggio di prendere in mano. Se è vero che nella storia della Chiesa la fatica più grande è stata riconoscere piena dignità all’umanità di Cristo, questa seconda tentazione è forse anche oggi quella a cui prestare maggiore attenzione. Percorrere la via dell’Incarnazione, così come l’ha percorsa il Figlio di Dio – seconda Persona della Trinità – significa prendere sul serio le domande dell’uomo di oggi, con le acquisizioni, le sensibilità e gli strumenti che appartengono all’umanità di oggi. Evadere da questa sfida significa rifugiarsi in un Dio la cui umanità risulta in ultima analisi evanescente, un Dio che non può salvare l’uomo di oggi perché di fatto non lo assume fino in fondo. Ma questo non è certo il Dio cristiano.