Cattedrale di Carpi

Mandato missionario a don Luca Baraldi e Camilla Lugli

IV Domenica di Pasqua

(At 4,8-12; Sal 117; 1 Gv 3,1-2; Gv 10,11-18)

Omelia

“Ho altre pecore che non provengono da questo recinto”. Proprio perché non è un pastore qualunque, ma è il pastore “buono” – potremmo tradurre “il pastore-modello” – porta nel cuore anche le pecore lontane, che non stanno al sicuro dentro l’ovile. In un capitello della basilica medievale di Vézelay, in Francia, è scolpita l’impiccagione di Giuda; nella scena accanto è scolpito il buon pastore, che porta sulle spalle non una pecora, ma il corpo morto di Giuda. Questo pastore è “buono”, è un modello, perché non dà la vita solo per quelli rimasti nel suo recinto, ma per tutti. Quando Gesù pronunciava queste parole, gli ebrei sapevano a chi si riferiva: le autorità giudaiche avevano costruito un robusto recinto attorno al “popolo eletto”, riservando la salvezza ai puri e agli osservanti. Gesù aveva minato questo recinto, aveva allentato i paletti, andando a cercare proprio quelli che ne erano stati esclusi: peccatori, malati, poveri, emarginati; non aveva rifiutato neppure gli stranieri, indicati anzi in più occasioni come esempi di fede. Il gregge a cui si rivolge vive a cielo aperto, non ha bisogno di steccati se non quanto basta per riposare e difendersi da lupi e briganti. Gesù si sente  mandato ad eliminare le palizzate, perché il regno di Dio è un pascolo libero, dove tutti possono accedere all’acqua e all’erba: anche – anzi prima di tutto – chi di solito è mantenuto alla larga dall’ovile. Un’unica staccionata può bloccare il buon pastore, quella del cuore: egoismo, chiusura in sé, orgoglio. Chi si gonfia del proprio “io” non ha più spazio per un “tu”, nemmeno per il “tu” di Dio.

Carissimi Camilla e don Luca, manifestando il fermo desiderio di andare in paesi lontani, il Madagascar e il Canada, uscite dal recinto e date una parte buona della vostra esistenza a persone che ora nemmeno conoscete. Vi fate più chiaramente segni di quel buon pastore che vuole incontrare anche chi non proviene da questo ovile. La vostra scelta svela la spinta missionaria presente nell’animo di ciascun battezzato. Tutti siamo missionari – è bene ricordarlo oggi, nella Giornata delle vocazioni – e diversi sono solamente i modi di esserlo. Andare lontano, donarsi ad altre pecore che non provengono dal nostro recinto, è una provocazione buona. Fa bene a voi, perché estrae dal vostro cuore le energie più gratuite, quelle della prossimità; farà bene alle persone che incontrerete e fa bene anche alla nostra Chiesa. È sempre faticoso lasciar andare chi opera intensamente tra noi; ma è una fatica fruttuosa. Per questo, a nome della Chiesa di Carpi, vi ringrazio; e i ringrazio i vostri familiari, insieme a coloro che vi hanno formato a questa dedizione “a cielo aperto”: nella nostra diocesi, per don Luca, e anche nell’ufficio missionario della diocesi di Reggio Emilia, per Camilla.

Un’altra scultura del buon pastore, una statua alta un metro, risalente agli inizi del IV sec., oggi esposta nei Musei vaticani, presenta un particolare interessante: Gesù, giovanissimo con la pecora sulle spalle, ha una capigliatura folta e increspata, che si confonde  e si mescola con il vello della pecora. Lui e la pecora sembrano avvolti nella stessa lana. L’artista ha così rappresentato l’esito di quel “dare la vita” ricordato cinque volte nel Vangelo di oggi. Gesù è un pastore così buono, che si confonde con la pecora. È un pastore così fuori del comune, che si fa agnello, come dirà lo stesso Giovanni nell’Apocalisse: “agnello immolato” (Ap 5,12).

È la bellezza sconcertante dell’amore del Signore. “Bellezza”, perché il pastore non è semplicemente buono, è anche “bello”; Giovanni usa infatti una parola che significa “bello”, armonioso. Ma è una bellezza sconcertante, perché la bellezza di Gesù non sta nella proporzione delle parti, nell’armonia dei colori, dei suoni o delle forme; non sta in tutto quello che, giustamente, davanti ad un’opera d’arte, ci fa esclamare: “che bello!”. La bellezza di Gesù è la bellezza dell’amore, il “dare la vita”; è una bellezza estroversa, è un’armonia che non si trova rimanendo chiusi in se stessi, ma uscendo da se stessi nella relazione, nel dono di sé. Gesù non è mai così bello come quando diventa brutto, sulla croce, dove “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi”, come scrisse secoli prima Isaia in una pagina profetica (cf. Is 53,2). Perché la bellezza vera non è la custodia di sé, che si riduce a conservazione e restauro, ma la custodia dei fratelli e del creato, che richiede dono e sacrificio, ma che ripaga con una vita piena di senso, “bella” appunto. Chi si rinchiude in sé, anche se ben restaurato, si abbruttisce; chi si dona, anche se solcato dalle rughe, si abbellisce.

Abbiamo bisogno di questa bellezza, di una bellezza missionaria. Credo che il problema fondamentale delle nostre comunità cristiane siano i recinti. Se gli steccati del cuore, gli egoismi, si dilatano nelle forme di vita ecclesiale, si ripiomba nelle situazioni chiuse contestate da Gesù. Il recinto comunitario deve servire solo per riposare, ritemprare le forze, riprendere energia nell’ascolto della voce del pastore, nella celebrazione liturgica della sua presenza e nelle espressioni della vita fraterna; ma non deve diventare un “cerchio magico”, una bolla dentro cui auto-rispecchiarsi, una stanza cosmetica, dove ci rifacciamo il trucco, mentre fuori dal recinto tante greggi hanno fame e sete di cibo, di affetto, di libertà, di senso, di giustizia e di Dio. Tante volte papa Francesco ha denunciato il rischio di comunità malate e auto-referenziali. Eistono termometri per misurare questa febbre: quando spendiamo le energie per combatterci a vicenda, trasformandoci in pecore litigiose che belano contro le altre pecore, o in piccoli lupi che si feriscono gli uni gli altri dentro l’ovile, anziché lasciarci ferire dai veri problemi della gente; quando ci appassioniamo per le nostre beghe interne, da sacrestia, da curia o da canonica, invece che appassionarci alle povertà materiali, morali e spirituali delle persone; quando siamo così compresi da noi stessi, che diventano più importanti le piccole fette di potere – vere o presunte – dentro l’ovile, i piccoli piedistalli su cui salire, più che l’unico potere ammesso da Gesù, servire e lavare i piedi ai fratelli; quando insomma ci ripieghiamo su noi stessi, la febbre si alza; segno che il corpo della comunità è malato. Il pastore modello, bello e buono, ci aiuti, se necessario anche con qualche colpetto di bastone, ad essere ovili aperti, talmente contenti di far parte del suo gregge, da appassionarci solo per la missione di testimoniarlo a tutti.

 

+ Erio Castellucci