Omelia di Mons. Castellucci nella seconda domenica di Quaresima

8 marzo 2020 - Cattedrale di Carpi

All’inizio della Messa

La quaresima, quest’anno, prosegue di pari passo con una sorta di quarantena, imposta dalle autorità governative sulla base di precise disposizioni sanitarie, per arginare la diffusione del virus che sta colpendo anche le nostre zone. Il senso civico, il desiderio di contribuire al bene comune e l’ispirazione evangelica della carità ci portano ad accettare queste limitazioni, compreso il divieto di celebrare a porte aperte l’eucaristia domenicale, che vedrebbe un assembramento di persone consistente. Ci teniamo quindi uniti attraverso gli strumenti della comunicazione, i cui operatori ringrazio per questa importante collaborazione. Desidero poi salutare e ringraziare i concelebranti, la piccola rappresentanza del popolo di Dio presente qui in Cattedrale e tutti coloro che sono collegati in diretta televisiva dalle loro case e dai luoghi di cura. Ringrazio in particolare coloro che si stanno prendendo a cuore gli ammalati e stanno operando per contenere la diffusione del contagio: i medici e gli altri operatori sanitari, i volontari, i ministri delle comunità, le forze dell’ordine e di vigilanza, le istituzioni locali e statali, gli scienziati che stanno studiando i rimedi più efficaci. In questa celebrazione eucaristica pregheremo in particolare per le vittime della malattia, per coloro che la stanno affrontando, per la rapida cessazione del contagio, per chi rischia il posto di lavoro e perché in tutti noi l’ansia e la paura cedano il passo all’attenzione, alla cura e alla preghiera. Anche se sparsi sul territorio della diocesi, siamo sempre e tutti insieme “Chiesa”, che il Signore raduna all’inizio del cammino quaresimale. Chiediamo perdono dei nostri peccati, per preparare il cuore a ricevere il dono della parola di Dio.

Omelia – Gen 12,1-4; Sal 32; 2 Tim 1,8b-10; Mt 17,1-9 –

Una delle paure più diffuse, nei piccoli e nei grandi, è la paura del buio: se uno rimane chiuso in una stanza senza luce, dove non può vedere nulla, si sente smarrito, non sa cosa fare, teme che si possa presentare qualche pericolo. La luce richiama la vita, perché senza la luce del sole moriremmo, e il buio al contrario richiama la morte.

Le letture di oggi insistono sulla luce, ma noi avvertiamo in queste settimane un’esperienza di buio, di smarrimento, come se fossimo in un lungo tunnel che sembra non finire più. San Paolo, nella seconda lettura, ha scritto che Gesù “ha fatto risplendere la vita”, cioè ha portato luce e quindi vita là dove dominavano buio e morte. Infatti aveva detto: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12). E per dimostrarlo, qualche tempo prima della sua morte in croce e della sua risurrezione, prende con sé sul monte Tabor i tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni e si fa vedere “trasfigurato”, come se fosse già risorto. Lo fa per incoraggiarli, per prepararli ai giorni della passione, del buio, per aprire già nei loro cuori il varco della speranza. E loro vorrebbero fermare il tempo: “Signore, è bello per noi essere qui”. Tutti vorremmo fermare il tempo quando viviamo delle esperienze positive, gioiose, gratificanti. In questi giorni, invece, vorremmo accelerare il tempo, vedere subito la luce, sentirci dire che il pericolo è ormai dietro le spalle. Più che sul monte Tabor, ci sentiamo sul monte Calvario. Soprattutto le famiglie che a causa del virus hanno perso un congiunto e quelle toccate dalla malattia, che attraversano giornate di apprensione e di attesa. Ma anche chi vive questi tempi con ansia, preso perfino dal panico. E tutti coloro che si stanno adoperando, come ricordavo all’inizio della Messa, per curare, soccorrere, consolare. Tutti vorremmo abitare la luce del Tabor e nessuno vorrebbe sostare nel buio del Calvario.

Nessuno, nemmeno i discepoli di Gesù. Proprio quei tre, Pietro, Giacomo e Giovanni, Gesù se li porterà dietro anche quando starà per salire verso il Golgota. La sera prima della sua morte, mentre si prepara per il grande passo, li conduce con sé nell’Orto degli Ulivi a fargli compagnia per un’ultima notte di preghiera; ma loro si lasceranno andare, si metteranno a dormire: non resteranno svegli davanti al Gesù stanco e sfigurato, come erano rimasti svegli davanti al Gesù glorioso e trasfigurato. E solo uno di loro tre, il giorno dopo, avrà il coraggio di salire sul Calvario.

Anche noi siamo così: vorremmo dimorare sul Tabor senza passare dal Calvario, vorremmo la luce senza attraversare il buio. Sappiamo bene che non è possibile, purtroppo. Il Signore stesso ha dovuto percorrere la salita del Golgota, per arrivare alla trasfigurazione, a quel Tabor definitivo che è la risurrezione. Gesù non ci ha svelato le ragioni profonde della sofferenza – anche lui sulla croce l’ha posta come domanda: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?” – e se non ce le ha svelate è perché la nostra mente non riesce a capire le dimensioni di questo mistero: quando la luce sarà piena, quando abiteremo sul Tabor della casa di Dio, quando vivremo “faccia a faccia” con lui, allora il mistero sarà svelato. Però non ci ha lasciati soli, ha percorso con noi la salita del Calvario: anzi, la percorre continuamente, dandoci l’occasione di vivere le fatiche e i dolori come strade di conversione e di condivisione. È molto diverso passare attraverso le sofferenze da soli, oppure attraversarle tenuti per mano, anzi tenuti in braccio come fa il buon pastore con noi e come ci chiede di fare con i fratelli.

Cerchiamo di vivere queste settimane senza farci prendere dall’istinto; esercitiamo la carità seguendo le norme che ci vengono indicate, sia di igiene personale sia di attenzione verso gli altri, perché le trasgressioni finiscono per ritorcersi soprattutto verso le persone più deboli. Evitiamo quelle espressioni di rabbia – nelle quali purtroppo alcuni fedeli sono caduti – nei confronti delle autorità civili, sanitarie ed ecclesiali, per le severe misure adottate. È difficile, certo, accettare queste limitazioni, riguardanti anche le celebrazioni liturgiche. Ma è un controsenso rivendicare il diritto di celebrare e mangiare l’eucaristia e nello stesso tempo rimangiarsi lo stile della carità; è una contraddizione, perché l’eucaristia è il sacramento della carità e proprio alla carità deve condurre. Il principio di precauzione, che tutela nel dubbio le persone più fragili, è una delle espressioni della carità. Meglio eccedere nella prevenzione che dover correre ai ripari nella riparazione.

È possibile trasfigurare questo tempo, se lo viviamo aderenti al Vangelo: se lo viviamo, cioè, non come imposizione ma come occasione per riscoprire il valore del silenzio e della meditazione; per farci presenti alle persone più esposte alla solitudine, alla malattia, al panico; per aiutare, secondo le nostre condizioni chi è impossibilitato ad uscire di casa, anche con piccoli servizi come la spesa, l’acquisto di medicinali, il pagamento di utenze. Cerchiamo di non accartocciarci nel nostro problema, mantenendo lo sguardo aperto sui tanti drammi che il mondo continua a vivere, molti dei quali più tragici del nostro; e soprattutto mantenendo lo sguardo aperto sulle luci che continuano a splendere: la cura, la solidarietà, l’attenzione agli altri. Molti singoli e gruppi, anche attraverso i moderni mezzi di comunicazione, anziché arrendersi si danno da fare per intensificare le relazioni, esprimere affetto, diffondere consolazione e preghiera, vincere il virus della malattia con il contagio della solidarietà.

La luce non sarà soffocata dalle tenebre; il monte Tabor, alto quasi seicento metri, è molto più elevato del monte Calvario, una collinetta di pochi metri: le proporzioni tra i due monti sono quelle tra la luce e il buio, tra il bene e il male; il Calvario è un’altura di passaggio; il Tabor, l’alto monte, è la meta definitiva della nostra esistenza.